Copertina Discorsi Taviani

 

 

Mohamed Atta

"Pittaluga"  /

Paolo Emilio Taviani

Senatore a Vita

Anna Politkovskaja

La Redazione del sito internet è coordinata dal dott. Raffaele Paolo Coluccia / giornalista / iscritto dal 1998 alla Federazione Italiana Volontari della Libertà -FIVL- mediante l'adesione all'Associazione Nazionale Partigiani Cristiani (fondata da Enrico Mattei nel 1947) e mediante l'adesione all'Associazione Raggruppamento Patrioti "Alfredo Di Dio" /

direttore e vice-presidente dell'Istituto Pedagogico della Resistenza dal 1996 al 1999

direttore responsabile del periodico "Valtoce" dal 2003 e promotore del Congresso Internazionale Volontari della Libertà http://www.civl.it/


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Paolo Emilio Taviani

Senatore a vita

 

SENZA LA RESISTENZA MONDIALE IL NAZISMO AVREBBE VINTO

 

La forza ideologica e culturale europea e mondiale sostenne l’Inghilterra quando da sola nel settembre 1940 vinse la battaglia aerea di Londra e bloccò il Blitz Krieg nazista.

In Norvegia, in Danimarca, in Francia, in Belgio, in Olanda la resistenza armata di decine di migliaia di giovani e la cooperazione di altrettanti anziani è scattata subito dopo Dunkerque.

Centinaia di volontari sono accorsi in Inghilterra dall’Irlanda e dagli Stati Uniti e si sono aggiunti ai polacchi, ai francesi, ai norvegesi, ai belgi e agli olandesi che, anziché congedarsi e tornare a casa loro, sono accorsi con ogni mezzo nell’isola britannica per continuare la guerra. Le operazioni navali e aeree britanniche furono da subito sostenute nel continente da patrioti che di settimana in settimana si organizzavano contro gli invasori nazisti.

In altre due occasioni la Resistenza fu la protagonista della vittoria.

Fu la Resistenza della Grecia e della Jugoslavia a impedire nel ’41 che i nazisti potessero impiegare tutti i previsti corpi d’armata che li avrebbero portati a Mosca prima delle nevi invernali.

Furono la Resistenza jugoslava, belga, olandese, italiana, greca, norvegese, a trattenere numerosi corpi d’armata germanici lontani dalla battaglia decisiva dello sbarco in Normandia nel giugno ’44; e i maquìs francesi diedero un prezioso contributo al successo dello sbarco.

A est le Resistenze filippina, indocinese, birmana tailandese, contribuirono a impedire lo sbarco giapponese in Australia.

   Senza la Resistenza europea e mondiale il nazismo avrebbe potuto vincere la guerra.

 

Berkin Elvan

Giorgio Cremaschi

sindacalista

Giuseppe Di Vittorio

 

 

 

 

NGUYEN VAN THUAN FRANÇOIS XAVIER

 

 

 

 

 

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ed alla Testimonianza militare e politica del  Senatore a Vita  Prof. Paolo Emilio Taviani

  

 



 

ORIGINI E CAUSE DEI REGIMI TOTALITARI

NATURA E FUNZIONE DELLE DEMOCRAZIE


STORIA CONTEMPORANEA

 

 

Ricerche storiche edite dall’Istituto Pedagogico della Resistenza nel 1998, aventi ad oggetto l’analisi e la critica dei sistemi totalitari (fascista, nazista e stalinista) e la promozione delle ragioni della democrazia.

 

 

Presidente    Orazio Pizzigoni

 

Direttore      Raffaele Paolo Coluccia

 

 

 

Autori e titoli delle opere:

 

Orazio Pizzigoni, Un secolo carico di tragedie e di speranze.

 

Lorenzo Cattoni, Autoritarismo e totalitarismo nell'Europa del XX secolo.

 

Alessia Dimitri, Terrorismo e servizi segreti in Italia.

 

 

 

 

 

Quaderni del Pedagogico

La lezione del Novecento (1)

 

  

 

 

Un secolo

carico

di tragedie

e di

speranze

 

  

Orazio Pizzigoni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Introduzione

 

Questi quaderni si propongono di mettere a fuoco le questioni di maggiore peso e significato che il Novecento, un secolo terribile e insieme, affascinante, ci ha proposto. Alla vigilia del Duemila, si impone una riflessione approfondita, libera da schemi ideologici e culturali, aperta sulle ragioni che hanno caratterizzato speranze, sogni, illusioni. Con una preoccupazione fondamentale: quella di capire meglio la lezione che il nostro secolo, così carico di problemi, ci ha lasciato e attorno alla quale le nuove generazioni in modo particolare saranno impegnate nel tentativo sicuramente difficile ma non disperato di disegnare prospettive di sviluppo civile per tutti.

 

E' convinzione nostra ‑tante volte ribadita in incontri, confronti, convegni‑ che sia impossibile dare corso a progetti adeguati alle esigenze del nostro tempo senza una rilettura rigorosa dei percorsi di un secolo, che, come non mai nella storia dell'umanità, ha esaltato e, nello stesso tempo, mortificato l'uomo.

 

Le note che proporremo in questi quaderni dedicati dal "Pedagogico" al Novecento vogliono stimolare questa rilettura da parte di studenti e insegnanti (ma non solo) in modo da coglierne per intero il messaggio. Fuori di schemi culturali che risultano spesso insufficienti a spiegarne ‑almeno secondo noi‑ il senso.

 

Milano, aprile 1998

L’Istituto Didattico Pedagogico della Resistenza

  

________________________________

 

 

Fra tragedie e speranze

 

Un secolo fortemente caratterizzato il Novecento: dalla violenza ma anche dalla sua universale condanna; dall'affermazione di regimi autoritari ma anche dalla loro sconfitta; dai nazionalismi più sfrenati ma anche dall'avvio di processi di integrazione sovranazionale; dalla difesa degli interessi particolari ma anche da una concezione solidaristica che tende ad investire l'intero pianeta; da forme di governo locali, chiuse in se stesse, ma anche dalla costituzione di organismi investiti del compito di sovrintendere, con le ragioni dei singoli, quelle più generali di tutta l'umanità; da una utilizzazione delle risorse naturali volta a tutelare i privilegi di minoranze ma anche dall'assunzione di una politica di difesa e di sviluppo che tenga conto delle esigenze universali e che, quindi, avvii rapporti di collaborazione in nome di una più razionale gestione dei beni presenti sull'intero pianeta.

Un secolo, nel male e nel bene, dunque, decisivo che ha, fra contraddizioni e drammi, gettato le basi per l'avvio di nuovi rapporti internazionali, improntati a una visione globale degli interessi in gioco.

Un secolo dove la dignità di ogni uomo è stata assunta, almeno come aspirazione, a metro di misura dei comportamenti singoli e collettivi e che si sta affermando, superando resistenze conservatrici presenti ovunque e in ogni strato della società, come una delle ragioni, se non proprio la ragione principale, dell'impegno di milioni di uomini e di donne e che trova una vasta eco nelle coscienze delle nuove generazioni, alimentando la speranza nella possibilità di costruire condizioni civili di sviluppo.

Un secolo che ha visto nascere e tramontare sogni e illusioni circa la possibilità di disegnare nel breve tempo una società, diversa nel rispetto dei diritti della persona umana e che, alla vigilia del Duemila, cerca, all'interno di una crisi devastante di valori, di recuperare non solo la speranza in una più dignitosa e civile convivenza umana ma anche, ammaestrata dal passato, la possibilità di ancorare a questa speranza progetti non illusori di sviluppo.

 

 

     Un secolo di violenze

 

Quello che emerge subito anche dalla lettura veloce di questo secolo sono le manifestazioni di violenza, di crudeltà, di barbarie che hanno segnato la storia di singoli, di gruppi, di popolazioni. Dove gli interessi particolari, volgari, legati a comportamenti egoistici, si sono intrecciati con le "ragioni" di ideologie autoritarie, le quali alla violenza si sono affidate per affermarsi.

Forse mai, almeno nella dimensione che ci e dato oggi di considerare, la violenza è risultata nella storia dell'umanità così estesa. Il passato certo non é, sotto questo profilo, confortante. L'umanità ha subito spesso le prepotenze dei più forti, dei più organizzati o dei meglio attrezzati. Il suo cammino è lastricato da tante vite spezzate. Il dolore ha accompagnato in ogni momento l'esistenza di milioni di uomini, di donne, di bambini, vittime spesso innocenti di queste prepotenze. I cronisti e i poeti, che ci hanno tramandato spezzoni di vicende anche lontane (da Omero a Erodoto a Tucidide a Cesare), ce ne hanno fornito testimonianze precise o, almeno, una chiave di lettura che consente di leggere fra e oltre le righe. Se, naturalmente, non ci si lascia frastornare dalle gesta dei principali protagonisti che, spesso, a causa di una lettura affrettata e superficiale, impediscono di gettare lo sguardo su chi si muove sul palcoscenico della storia senza avere diritto a una menzione, quasi si trattasse di comparsa priva di caratteristiche, sentimenti, interessi umani.

Il secolo Ventesimo si segnala, dunque, per una particolare ferocia, ma anche per alcuni motivi che gli sono peculiari: la sensibilità intanto di avvertire le vicende di ognuno e di tutti come meritevoli di attenzione, considerando ognuno e tutti figli di Dio allo stesso modo, risultato di una cultura che trova nel cristianesimo, nelle rivoluzioni liberali e nell'egualitarismo socialista i suoi punti di riferimento, e poi la capacità di tenere il conto, disponendo di una strumentazione che consente di farlo, di tutte le vittime della violenza, a qualunque titolo provocata. Se oggi possiamo stimare il numero dei morti di tutte le guerre che hanno insanguinato il pianeta nel Novecento; se riusciamo, sia pure con una certa approssimazione, a contabilizzare le vittime dei regimi autoritari che si sono imposti per periodi più o meno lunghi; se siamo in grado di fornire una cifra (quattro miliardi?) sui morti di fame nel secolo che vanta i maggiori progressi nella storia dell'umanità di cui un grande numero bambini (ottocento milioni?) è grazie a questa capacità contabile. Un dato non solo tecnico ma politico e culturale perché provoca la sensibilità del nostro secolo e, quindi, ne stimola la reazione. Dal male, insomma, di cui viene definita la grandezza e, quindi, il suo carattere mostruoso, il bene o, comunque. la propensione al bene quale rimedio a situazioni intollerabili per la coscienza individuale e collettiva. In questo senso possiamo affermare che in nessun altro momento della storia umana si sono registrate tante situazioni negative e, come reazione, tante situazioni positive, al punto da farci definire questo secolo terribile e, nello stesso tempo, affascinante.

 

 

Una guerra dietro l'altra

 

Un secolo punteggiato dalle guerre: grandi e piccole, mondiali e locali, condotte in nome di ragioni universali o di interessi particolari, avendo come protagonisti nazioni intere o comunità ristrette. Un secolo che ha seminato lutti, dolore, lacrime sull'intero pianeta. Le guerre dominano la storia del Novecento, tanto da riuscire difficile, anche con la sofisticata strumentazione di cui disponiamo, a tenerne il conto. Qualcuno lo ha fatto, indicando il numero dei conflitti che ne hanno segnato la storia. Nella memoria e nella cultura delle generazioni che stanno dentro questo secolo due sono però le guerre che trovano, e per estensione e per numero di morti e per le manifestazioni di crudeltà, un posto a parte: la prima guerra mondiale (1914-1918) e la seconda (1939-1945).

La prima guerra mondiale, che si e combattuta in Europa fra, da una parte, la Germania e l'Impero Austro‑Ungarico e, dall'altra, la Francia, l'Inghilterra, la Russia, l'Italia e gli Stati Uniti, ha rappresentato un momento drammatico nella storia di questo secolo. Sui vari fronti hanno perso la vita quasi dieci milioni di giovani. Seicentomila i morti solo in Italia. Combattuta nelle trincee, in quella che è stata tramandata come una guerra di posizione, dove gli eserciti si affrontavano nel tentativo di sopraffarsi, essa si è conclusa con la sconfitta della Germania e la disfatta dell'Impero Austro‑Ungarico piegati dalla forza industriale degli alleati che riuscirono a mettere in campo un potenziale produttivo di gran lunga superiore. Il tentativo della “Triplice” di rovesciare questo rapporto di forze con l'utilizzazione dei gas (l'arma segreta di allora) si dimostrò insufficiente. Nella morsa degli eserciti alleati alla fine Germania e Impero Austro‑Ungarico dovettero cedere. I trattati di pace, sottoscritti fra il 1919 e il 1920, sanzionarono non solo la sconfitta degli eserciti della "Triplice" ma anche la fine dello stesso Impero Austro‑Ungarico. Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia, Polonia, Finlandia, Estonia, Lituania, Lettonia acquistarono piena indipendenza. L'Austria, chiusa nei suoi confini naturali, fu costretta a cedere all'Italia l'Alto Adige, Trento e Trieste, l'Istria e la Dalmazia. La Germania dovette rinunciare, a favore della Francia, all'Alsazia e alla Lorena. E a buona parte delle sue colonie africane. La Turchia che si era schierata con la "Triplice" fu costretta a cedere all'Italia le isole del Dodecaneso con Rodi in testa.

La grande carneficina, esaltata dai vari nazionalismi come un momento necessario per rifare in termini più giusti, i confini dell'Europa si rivelerà ben presto carica di errori, di contraddizioni, di problemi nuovi e, per certi versi, ancora più gravi di quelli che avevano determinato, a giudizio degli storici ufficiali, lo scoppio del conflitto. Dopo venti anni, la drammatica verifica della seconda guerra mondiale portava all'attenzione generale una realtà attraversata da tensioni infinite. Il vecchio continente trascinerà nel conflitto il mondo intero, spostando i fronti ovunque: in Africa, nell'Atlantico, nel Pacifico, nell'Oceano Indiano, con il coinvolgimento di Cina, Giappone e di tutto il Sud Est Asiatico. Con un bilancio finale drammatico, dove accanto ai caduti sui molti fronti si dovranno calcolare le vittime civili, le distruzioni di migliaia di città e villaggi, le atrocità dei lager, il genocidio compiuto contro gli ebrei senza distinzioni fra uomini, donne, bambini, giovani e vecchi. Una vera e propria strage, che trova ancora oggi un'eco nella coscienza. e nella memoria di un'umanità sgomenta, stupita, commossa di fronte alle testimonianze di chi è sopravvissuto a questa tragedia collettiva e ai documenti che gli strumenti moderni della comunicazione sono in grado di fornire a futura memoria.

 

 

Due guerre simili e insieme diverse

 

La prima e, la seconda guerra mondiale così simili per le vittime provocate, per il dolore seminato, per le lacrime versate e, nello stesso tempo, così diverse per le novità introdotte non solo sotto il profilo militare con la utilizzazione di nuove tecniche di morte ma politico con il coinvolgimento pressoché totale delle popolazioni che durante il secondo conflitto mondiale sono state costrette spesso a impegnarsi direttamente risolvendo le tradizionali divisioni fra militari e civili, meritano una lettura approfondita. Su queste differenze spesso, per non dire quasi sempre, si sorvola. Eppure qui stanno le maggiori novità, politiche e culturali di questa seconda metà del Novecento. La vittoria degli alleati nel 1945 infatti non ha segnato solo la sconfitta delle concezioni autoritarie del nazismo e del fascismo ma ha aperto un nuovo capitolo nella storia della democrazia moderna nel senso della partecipazione. L'impegno di milioni di civili, uomini e donne, nella lotta contro il nazismo e il fascismo in tutto il mondo; la vasta partecipazione popolare ai movimenti di resistenza; il rifiuto netto di logiche autoritarie, rivolte a mantenere ai margini della vita politica la società civile, e, soprattutto, la consapevolezza sempre più precisa e definita che in realtà complesse come le nostre sia impossibile dare soluzione positiva ai problemi senza l'intervento attivo della gente hanno determinato situazioni che impongono il continuo arricchimento del tessuto democratico.

 

 

La crisi della democrazia moderna

 

La crisi della democrazia moderna, che tante manifestazioni rivela ovunque, è l'espressione della incapacità dei gruppi dirigenti di adeguare, sotto il profilo istituzionale, il sistema democratico alle esigenze del nostro tempo. La seconda guerra mondiale e i movimenti di resistenza hanno infatti inciso nel profondo della vita politica, aprendo a nuove e straordinarie prospettive la gestione della vita pubblica. I movimenti, le idee, le speranze, i sogni, le illusioni che hanno percorso il Novecento fin dall'inizio hanno fatto emergere, sia pure da posizioni diverse e in un intreccio in cui spesso alle affermazioni di principio hanno fatto seguito pratiche che ne smentivano clamorosamente l'assunto (si pensi agli ideali socialisti e, in modo particolare, all'esperienza di potere dei comunisti), sono stati lievito di una più definita presa di coscienza dei problemi e, soprattutto, della necessità di porvi rimedio attraverso iniziative specifiche. L’istituzione, subito dopo la prima guerra mondiale, della Società delle Nazioni (1919) e la fondazione, subito dopo la seconda, dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (1945) riassumono questa esigenza, indicando gli strumenti attraverso i quali tentare di comporre le vertenze internazionali, intervenire nei casi di gravi sciagure, organizzare la solidarietà a favore delle popolazioni colpite da disastri naturali o da conflitti locali. Come siano finiti questi tentativi risulta con chiarezza dalla lettura delle principali vicende del nostro secolo.

 

 

La Società delle Nazioni

 

La Società delle Nazioni si è dimostrata impotente di fronte ai pericoli di guerra. Non solo. Le nazioni democratiche, che ne avevano sollecitato la costituzione nella convinzione che fosse possibile impedire il sorgere di nuove ragioni di conflitto, non riuscirono a bloccare i processi di involuzione autoritaria in molti Paesi europei. Italia, Germania, Spagna, Romania, Ungheria instaurarono regimi totalitari che fecero tabula rasa dei diritti civili, trovando spesso la complicità, a volte esplicita a volte nascosta, proprio da parte dei gruppi dirigenti dei paesi democratici che avrebbero dovuto vegliare sull'Europa, impedendo la ricostituzione di una Germania militarmente forte alla ricerca di una rivincita sul campo. Lo studio di questo fallimento può consentire non solo di chiarire tutte le responsabilità alla base di esso ma anche di capire perché i sentimenti di pace che la grande carneficina aveva stimolato, illustrando anche a chi non era stato al fronte gli orrori della guerra (si pensi al film di Mileston, “All'Ovest niente di nuovo”) furono travolti con facilità.

Eppure, nonostante questo fallimento, la Società delle Nazioni ha rappresentato un punto di riferimento importante proprio perché si è fatta interprete di un diffuso, anche se a volte confuso, bisogno di pace. Il fatto che subito dopo il secondo conflitto mondiale, essa venisse ricostituita sotto l'egida dell'ONU marca un orientamento in questo senso. Che neppure quasi mezzo secolo di guerra fredda (dal 1947 al 1989) ha rimesso in discussione. La terza guerra mondiale, agitata spesso come minaccia incombente, non è scoppiata. Anche se il confronto fra i due grandi schieramenti (uno arroccato attorno al Patto Atlantico, l'altro al Patto di Varsavia) ha preso altre vie, alimentando i conflitti locali (la guerra di Corea, il Vietnam, i conflitti nel Medio Oriente fra israeliani e arabi), le guerriglie (nel Sud America, in particolare), il terrorismo con la partecipazione attiva dei servizi segreti. O, come si suole dire con un eufemismo, di alcune schegge impazzite di essi.

Le organizzazioni internazionali, allora, incapaci di farsi carico dei problemi che la tumultuosa crescita registrata nel Novecento ha fatto emergere? Anche l'ONU, che pure ha avuto a disposizione l'esperienza della Società delle Nazioni, destinata alla resa? Il mondo, nel momento in cui ci si avvia verso il Terzo Millennio, lasciato a se stesso, alla mercé degli interessi particolari, delle grandi lobby economiche, delle famiglie che contano e che, in virtù dei poteri di cui dispongono, hanno dominato la storia pure nelle società rette da regimi democratici? I problemi, i drammi, le tragedie che abbiamo vissuto in questa seconda metà del secolo e che stiamo ancora vivendo (si pensi alle stragi d'Algeria) resteranno senza risposta? Quali le ragioni che hanno impedito e impediscono all'ONU di intervenire in situazioni che offendono la coscienza del mondo? La composizione degli interessi particolari, difficile e tormentata, ostacolo sulla strada di un governo mondiale? E poi, la sconfitta delle società autoritarie sanzionata nella seconda guerra mondiale non ipotizza forse la possibilità per l'Organizzazione delle Nazioni Unite di ripristinare, là dove sono stati conculcati, i diritti civili? E se sì, almeno in teoria, come tradurre questo orientamento in atti concreti? Ecco alcuni degli interrogativi che il Novecento ci propone e che attendono una risposta. La sapremo dare?

 

Si sono determinate ‑ecco questo l'interrogativo di fondo‑ le condizioni perché le aspirazioni, le speranze, gli orientamenti emersi durante il grande conflitto contro nazismo e fascismo trovino una loro rappresentazione nella vita dei popoli?

 

 

Alla democrazia non ci sono alternative

 

Il Novecento, attraverso esperienze drammatiche quando non addirittura tragiche, ha dimostrato che alla democrazia non ci sono alternative. E' questa sicuramente la lezione più importante che possiamo ricavare dalla lettura del nostro secolo. Le società autoritarie, quali siano i loro contenuti, hanno rivelato la loro incapacità di fondo a dare risposte ai problemi che si sono via via accumulati sulla strada dello sviluppo. Alla lunga, queste società si rivelano fonte di contraddizioni insanabili a cui si cerca di porre rimedio attraverso scelte che assumono, come è risultato evidente, un carattere violento. Il disastro, con il sacrificio di milioni di uomini, di donne, di bambini, è l'inevitabile conclusione di queste esperienze. Ecco perché alle insufficienze, alle contraddizioni, ai limiti della democrazia è possibile rispondere in un solo modo: con la democrazia. Il crollo del fascismo e del nazismo durante la seconda guerra mondiale e, quindi, in seguito di quasi tutte le altre esperienze autoritarie in Europa e negli altri continenti sta lì a provarlo in modo inequivocabile. Ma per essere convincente e adeguata alle esigenze di società in rapido sviluppo, la risposta democratica non può affidarsi a schemi e a criteri del passato. La lezione del Montesquieu, incentrata sulla divisione dei poteri e sulle rappresentanze parlamentari, non basta più. C’è bisogno di una democrazia che non si limiti a sostituire un gruppo dirigente con un altro ma che, facendo leva sulla società civile, in rapporto alla maturità di questa società, fornisca gli strumenti (gli istituti) per rendere praticabile la partecipazione dei cittadini. La Resistenza questa partecipazione, sia pure in modo forse non preciso e addirittura confuso, aveva ipotizzato. Ma se il progetto di architettura istituzionale di una democrazia partecipata non è stato definito nei particolari (né poteva esserlo nel corso della seconda guerra mondiale) chiaro risultava però, dai fatti prima che dalle enunciazioni, l'orientamento verso processi volti al coinvolgimento della società civile. Purtroppo questa prospettiva invece di essere perseguita con tenacia ha trovato sul suo cammino resistenze tenaci, addirittura feroci, da parte non solo della destra conservatrice ma anche della sinistra che non aveva escluso, per ragioni ideologiche, il possibile ricorso per l'affermazione delle proprie ragioni a soluzioni autoritarie. La porta aperta dalla Resistenza si è così ben presto richiusa alle spalle delle grandi masse popolari che durante la lotta al fascismo e al nazismo avevano rivelato una volontà di protagonismo nuovo e sicuramente straordinario nella storia dell'umanità.

Questo orientamento, così preciso e definito allora, di fronte ai guasti delle società democratiche, di cui si colgono le manifestazioni in ogni campo, troverà credito nella coscienza delle nuove generazioni? Il Novecento si chiuderà con il recupero di un'esperienza, quella resistenziale, che ha segnato in profondità il suo corso? Il messaggio lasciato dai resistenti troverà stimoli nuovi o finirà per essere sepolto sotto i colpi di chi non intende modificare le vecchie logiche di potere con la complicità di una cultura che sembra privilegiare alle analisi approfondite la retorica celebrativa?

 

 

Sotto il rullo del revisionismo storico

 

C'è in atto un processo di revisione che tende a rivalutare chi si è schierato durante il secondo conflitto mondiale dalla parte del fascismo e del nazismo o, comunque, dei loro eserciti. Quasi si trattasse non di una scelta di campo fra due concezioni del mondo, fra due modi di intendere i rapporti fra gruppi dirigenti e società, fra una società che si affida alla tolleranza, alla solidarietà, al rispetto della diversità considerata fonte di ricchezza e una società che invece non sopporta altre idee se non le proprie, che predica la violenza come dato fisiologico, che alla solidarietà verso i più deboli privilegia la logica della selezione naturale dove il più forte ha il diritto di prevalere, che mortifica l'umanità in nome di ideologie totalitarie.

Le interpretazioni della seconda guerra mondiale fuori di questo contesto rischiano di mettere tutti sullo stesso piano: chi stava dalla parte della libertà e della democrazia, e chi stava dall'altra, sfumando confini che, al contrario, per i più risultarono allora netti. In nome di ragioni umanitarie ‑la pietas per i vinti; il rispetto di chi si è battuto in buona fede; la comprensione per i sentimenti di chi ha subito la sconfitta‑ si è cercato e si cerca di stravolgere la storia, così come si è svolta, facilitando non il recupero dell'umanità di chi ha fatto una scelta sbagliata (riconosciuta quasi sempre subito dopo la conclusione del conflitto) ma le ragioni di fondo, politiche, culturali, ideali, di chi quella scelta aveva compiuto.

Questo revisionismo, perseguito con tenacia (a volte, addirittura con accanimento) ha trovato spazio anche per le insufficienze culturali di chi non si è impegnato in un'analisi più approfondita della Resistenza e delle novità da essa introdotte nella vita delle società democratiche. Sul coinvolgimento nei movimenti di Resistenza (in Europa ma non solo) delle grandi masse popolari si è poco insistito. E quando lo si è fatto, è stato solo per metterne in luce "l'eroismo" "l'abnegazione", lo "spirito di sacrificio" di singoli e di gruppi e non il fatto in sé, vale a dire una partecipazione che ha segnato in profondità la democrazia moderna, aprendola a nuove e più evolute possibilità di affermazione. In questo senso, si può tranquillamente affermare che la vittoria sul fascismo e sul nazismo non ha rappresentato solo la condanna senza appello delle società autoritarie ma anche la messa in mora di una democrazia che si era sino ad allora sostenuta utilizzando le vecchie forme di rappresentanza disegnate dalle rivoluzioni inglese, americana e francese e che, nel momento in cui chiamava all'impegno l'intera società civile, ne ridisegnava il ruolo reclamando un progetto di architettura istituzionale che facesse posto a istituti i quali, concluso il conflitto, consentissero questa partecipazione in tempo di pace. Ci si è preoccupati ‑complici a volte anche i resistenti‑ di riaffermare vecchie logiche che concepiscono il cambiamento solo come cambiamento dei gruppi dirigenti. Ma sempre dentro i vecchi schemi. Gli istituti della partecipazione popolare infatti non hanno trovato posto quasi da nessuna parte. Anche in Italia, dove si è dato vita a una delle costituzioni più avanzate, gli istituti della partecipazione, che fanno riferimento a una concezione decentrata dello Stato, si sono rivelati spesso gusci vuoti (o quasi), come è accaduto con le Regioni, con i Comuni e con i Consigli di quartiere e di zona. Senza che si levasse da parte delle forze politiche che alla Resistenza si ispiravano e si ispirano e delle stesse Associazioni degli ex partigiani una richiesta pressante rivolta a dare contenuti nuovi, attraverso l'arricchimento continuo del tessuto democratico in senso partecipativo, alla vita civile. Quasi che, chiuso il capitolo della guerra, si dovesse anche chiudere quello della partecipazione. Facendo intendere ‑secondo una interpretazione forse esasperata ma certamente non molto lontana dalla verità‑ che le grandi masse popolari sono da apprezzare quando si tratta di morire ma meno, molto meno, quando si tratta di vivere.

Ecco perché, attraverso la rilettura del Novecento, è impossibile non interrogarsi anche sul revisionismo di chi, per ragioni diverse e complesse, ha lasciato in ombra questioni di grande e decisiva importanza non tanto e non solo sotto il profilo culturale ‑la necessità di conoscere un capitolo importante della nostra storia‑ ma politico e civile risultando decisiva la disponibilità di strumenti -le chiavi di lettura- per decidere del presente e del futuro. C'è da domandarsi, di fronte a defaillance politiche e culturali così rilevanti, se il peggiore revisionismo non sia proprio quello di chi, pur avendo militato dalla parte della Resistenza, non ha avvertito (dominato da logiche ideologiche?) l'esigenza di avviare su strade nuove la democrazia. Forse (ma è più che un sospetto) per il timore di mettere in difficoltà il sistema comunista che, forza determinante quando si è trattato di battere le armate fasciste e naziste, non era però disposto ad aprire ad una concezione democratica della società? Qui, anche qui, allora trovano spiegazione i silenzi che hanno accompagnato ‑almeno a sinistra‑ le analisi circa la partecipazione popolare alla Resistenza? Qui affonda le sue radici una rappresentazione ufficiale, che ha avuto largo credito ad Ovest come ad Est, della Resistenza come grande lotta patriottica? O come guerra civile, patriottica e di classe insieme dove le ragioni particolari hanno avuto il sopravvento? Che la Resistenza sia stata anche lotta patriottica non ci sono dubbi in proposito. Ma sicuramente le ragioni "patriottiche" sono state surclassate da altre ragioni: le ragioni della libertà, della democrazia, della giustizia, della tolleranza, della solidarietà che non conoscono confini.

In tutti -o in quasi tutti i resistentiqueste ragioni hanno rappresentato il punto di riferimento decisivo per la loro scelta di campo. La sconfitta del nazismo e del fascismo è stata vissuta come la sconfitta delle società autoritarie. Le ragioni della libertà e della democrazia non si sono forse intrecciate nella coscienza di molti per non dire di quasi tutti (compresi coloro che militavano in formazioni liberali e monarchiche) con le ragioni di giustizia? E' così. Ma ciò non basta per affermare ‑come ha fatto qualcuno‑ che la Resistenza è stata concepita come momento della lotta di classe. Salvo forse per qualche dirigente politico, allevato nei centri dell'emigrazione, legato più ai propri schemi ideologici che ai sentimenti, alle speranze, alle aspettative della gente. Per la stragrande maggioranza dei partigiani, facessero parte di questa o di quella formazione, i valori sui quali impegnarsi non erano diversi da quelli messi sulle bandiere degli eserciti alleati.

 

 

Una più precisa rilettura della Resistenza

 

Ma proprio il carattere universale della Resistenza, come grande movimento che ha travalicato i confini etnici, politici, culturali, ideologici, ne impone, alla vigilia del Duemila, la rilettura se vogliamo intendere sino in fondo la lezione del Novecento. La seconda guerra mondiale ha determinato, come abbiamo già rilevato, una rottura nella storia del nostro secolo non solo per la condanna senza appello delle società autoritarie ma per le novità introdotte nella democrazia moderna. Il carattere della guerra con il coinvolgimento della società civile, esposta alla violenza nello stesso modo dei militari al fronte (55 milioni di morti di cui più del 50% civili); il carattere dello scontro imperniato attorno non ai confini "violati dal nemico" o, almeno non solo ad essi, ma attorno ai valori di libertà, democrazia e giustizia; e, soprattutto, l'assunzione di responsabilità precise da parte della gente nei movimenti resistenziali hanno segnato in profondità i processi democratici nel senso della partecipazione. Il fatto che non se ne sia tenuto conto ‑o se ne sia tenuto conto in misura trascurabile‑ non diminuisce l'importanza che il secondo conflitto mondiale ha avuto ed ha per il presente e per il futuro dell'umanità. Di qui la necessità di analisi più rigorose di un capitolo decisivo della storia non solamente italiana ma europea e mondiale, libere da preoccupazioni politiche e ideologiche che si manifestano spesso o nella negazione della verità storica da parte di chi ha combattuto con le armate fasciste e naziste o con l'imbalsamazione retorica di vicende che, anche se stanno nel passato, proiettano nel futuro vicino e lontano, il loro messaggio.

 

 

Le tentazioni autoritarie

 

La difesa della democrazia moderna trova le sue ragioni soprattutto nella capacità delle forze politiche che ne rappresentano la' struttura portante di adeguarne gli istituti in modo da farli corrispondere alle esigenze della società civile. Il diffondersi dopo la prima guerra mondiale di esperienze autoritarie e totalitarie in modo particolare in Europa si spiega proprio con la debolezza delle società democratiche di fare fronte ai problemi vecchi e nuovi emersi in situazioni difficili, esasperate dalle distruzioni provocate, dalla crisi economica, dalle attese determinate in molti settori della popolazione che avevano pagato, in vite umane e in sacrifici materiali, il prezzo più alto. L'idea ‑diffusa da una certa pubblicistica‑ che i regimi autoritari. siano usciti dalle menti malate di qualche avventuriero della politica o dalle suggestioni di filosofie tese a reclamizzare la necessità di poteri forti, affidati a ristretti gruppi o, addirittura, a un dittatore, rischia di annebbiare la comprensione di un fenomeno che ha avuto, fra le due guerre, larga diffusione nel vecchio continente. La verità, semplice e, per certi aspetti, anche banale è un'altra. In realtà questi regimi autoritari anche se hanno i loro riferimenti in alcuni uomini (Mussolini, Hitler, Franco tanto per fare alcuni esempi) e movimenti (il fascismo, il nazismo, il franchismo) sono il prodotto dei limiti, delle insufficienze, delle debolezze delle società democratiche le quali, divise al loro interno, si sono dimostrate incapaci di dare risposte ai problemi che tormentavano vasti settori della società civile. E in effetti, anche se la violenza dei regimi autoritari ha giocato un ruolo importante nella loro ascesa, va anche detto che essi sono riusciti a dare soluzione ad alcuni di questi problemi, con particolare riguardo alla disoccupazione, all'inflazione, all'ordine pubblico, raccogliendo in alcuni momenti larghi consensi.

La democrazia allora sempre in pericolo, assediata com’è dai molti e diversi problemi che lo sviluppo induce? L'autoritarismo, in forme magari nuove ma non per questo meno limitative delle libertà civili, in agguato? Le conquiste sanzionate dal sacrificio di milioni di uomini, di donne, di giovani rischiano, per la fragilità di un reticolo democratico che non sopporta il peso di una domanda di partecipazione in rapida espansione, di essere spazzate via o di subire un drastico ridimensionamento?

La rilettura del Novecento, anche sotto questo profilo, risulta importante e decisiva se naturalmente non ci si limita ad utilizzare i tradizionali strumenti di analisi dentro i cui schemi si finisce, lo si voglia o no, per restare prigionieri e, quindi, nella impossibilità di coglierne per intero la lezione.

 

In questo senso, la seconda guerra mondiale rappresenta una cartina di tornasole decisiva, fornendo i mezzi non solo e non tanto per la contabilizzazione delle perdite (una tragedia immensa) ma per individuare le vie di uscita da situazioni che, se non vengono gestite con una strumentazione adeguata, possono, nel viluppo di altre contraddizioni, generare nuove tragedie.

 

 

Il sistema comunista

 

L'ascesa e il crollo del sistema comunista (fra il 1917 e il 1989) prova del nove del fatto che alla democrazia non ci sono alternative? Il tentativo di dare risposte ai problemi del nostro tempo, risolvendo di colpo, attraverso una rivoluzione sociale radicale, diseguaglianze, contraddizioni, cause di povertà materiale e spirituale, ha trovato, dunque i suoi limiti e le principali ragioni del suo crollo nella mancanza di un progetto istituzionale adeguato all'impegno? La liquidazione dei Soviet, indicati come una forma ‑la più avanzata?‑ di democrazia diretta alla base delle degenerazioni autoritarie del sistema? Ma era possibile, fuori di una concezione democratica generale dei rapporti fra i vari poteri dello Stato, affermare momenti di democrazia diretta? Nella sostanza, si capisce, e non nella forma. I Soviet sono sopravvissuti ‑è vero‑ ma solo come espressione formale di uno Stato che è ben presto degenerato in uno dei regimi autoritari più feroci, anticipando addirittura le manifestazioni più brutali del nazismo, con le deportazioni di massa, i gulag, l'eliminazione fisica di tutti gli oppositori, le persecuzioni. C'è da domandarsi come mai, oggi, nel momento in cui si cerca di rileggere le principali vicende del Novecento, non trovino posto, accanto ai campi di eliminazione nazisti, anche le repressioni staliniane che hanno fatto scuola pure fuori dell'Unione Sovietica, in Europa, in Asia, in America e che hanno avuto un'eco pure nei movimenti di liberazione africana. 1 partiti comunisti dell'Occidente, compresi quelli che si sono segnalati per percorsi diversi, aperti verso soluzioni democratiche, sembrano avere rimosso questo capitolo della storia, ritenendo sufficiente manifestare su di esso il proprio giudizio negativo. Annegando in questo giudizio non solo le nefandezze di chi ne porta la diretta responsabilità ma anche l'impegno generoso di milioni di uomini, di donne, di giovani che si sono battuti ‑e molti sono morti‑ per l'affermazione degli ideali socialisti. Anche loro, questi uomini, queste donne, questi giovani che spesso sono stati fra le vittime della ferocia staliniana, primi a pagare con la vita e fra sofferenze inenarrabili il loro rifiuto delle logiche autoritarie del sistema, anche loro da seppellire sotto questo frettoloso giudizio? Un'esperienza tanto drammatica, nata per alimentare speranze e sogni, non è meritevole di attenzione e di studio? Come è possibile chiudere un capitolo di storia che ha attraversato il secolo intero senza interrogarsi sulle cause che hanno determinato la fine di tante speranze e di tanti sogni?

Anche perché, alla vigilia del nuovo millennio, si stanno affacciando all'attenzione generale una infinità di problemi nuovi che richiedono grande coraggio e una capacita progettuale straordinaria.

 

Il Novecento, secolo terribile e, nello tesso tempo affascinante, si sta concludendo lasciandoci in eredità un patrimonio che, nel male e nel bene, va considerato con attenzione e dove, sollecitati da nuove e acutissime contraddizioni, sembra ci sia spazio di nuovo per l'utopia.

 

 

La crisi del Welfare State

 

Una democrazia più ricca, che disponga di un fitto reticolo di istituzioni per la partecipazione, nello spirito della Resistenza durante la quale la società civile ha dato larga prova del suo senso di responsabilità., rappresenta, alla fine del Novecento, una necessità per la costruzione di prospettive di sviluppo nella libertà. Senza disporre di questo reticolo, da aggiornare sulla base della domanda di partecipazione della stessa società civile, riesce difficile, per non dire impossibile, dare risposte in positivo al nuovi problemi indotti dallo sviluppo. Molte delle conquiste realizzate nel corso del secolo rischiano di essere messe in discussione da questi problemi. La crisi della società del benessere (il welfare state) lo sta ampiamente dimostrando. Due sono le questioni che, in modo particolare, stanno determinando difficoltà crescenti: il sistema sociale con particolare riferimento all'assistenza sanitaria e al pensionamento e i livelli di occupazione.

 

Il sistema sociale rischia infatti di saltare in aria a causa di un'espansione della spesa per la sanità e per le pensioni. Ma se per la sanità il ridimensionamento delle prestazioni gratuite per alcuni settori della società rappresenta, almeno entro certi limiti, una soluzione praticabile, per le pensioni il discorso risulta più complesso per l'ampiezza della spesa, l'aumento della vita media e, soprattutto, perché stanno venendo meno le ragioni per andare in pensione. In una organizzazione produttiva che privilegia sempre di più il lavoro intellettuale, si capisce sempre meno il pensionamento di uomini e donne che si trovano al livello massimo di professionalità. La capacità di lavoro, infatti, di chi ha raggiunto i limiti di età per il pensionamento risulta nella carriera professionale di un lavoratore -salvo qualche caso‑ massima. La vita media tende ad aumentare. Nel 1998 è stata calcolata in 76 anni. Nel 2005 dovrebbe toccare gli 86 per raggiungere, almeno secondo le previsioni dei biologi, addirittura i 120‑140 anni nel 2020. Sono previsioni che dovrebbero indurre a riflettere non solo sui limiti di età per il pensionamento ma sul pensionamento stesso, tenuto conto che, con tutta probabilità alla fatica fisica, così come l'abbiamo intesa sino a qualche decennio fa, sarà legato un numero sempre più ridotto di lavoratori. L'abolizione del pensionamento è allora alle porte? Ma se e così quali sono le situazioni che si determineranno sul mercato del lavoro? Già oggi, la ricerca di un'occupazione sta diventando problematica per i giovani. La presenza nell'organizzazione produttiva e dei servizi degli anziani non finirà per fare esplodere situazioni già oggi ai limiti del dramma?

Anche perché -ecco un altro dei problemi acuti che il Novecento lascia in eredita alle nuove generazioni‑ l'impiego su larga scala delle moderne tecnologie che all'elettronica' e all'informatica fanno riferimento riduce drasticamente il numero dei lavoratori impiegati. Le nuove tecnologie, in grado di immettere sul mercato un grande numero di prodotti e di servizi, con sempre meno lavoratori, ha messo in crisi alcuni dogmi sui quali si è retto nel nostro secolo lo sviluppo e, secondo i quali, l'espansione della base produttiva avrebbe comportato anche un'espansione dell'occupazione. La domanda di merci e di servizi non implica obbligatoriamente oggi un'area produttiva più ampia. Basta, per soddisfarla, disporre di tecnologie in grado di fare velocemente e senza soluzione di continuità i prodotti (o i servizi) richiesti con una partecipazione modesta ‑anche se qualificata‑ di professionisti con il compito di controllare il buon funzionamento delle macchine. Infatti, la ripresa delle economie occidentali, segnalata alla fine di questo secolo, non ha comportato un aumento degli occupati. Anzi, soprattutto nelle grandi aziende, il numero dei lavoratori impiegati è diminuito. Il numero dei disoccupati nell'Europa Comunitaria ha raggiunto, pure in un fase di espansione del mercato, i 20 milioni. E tende a crescere. Tanto da indurre a credere che il lavoro dipendente abbia toccato il tetto nel Novecento. Assisteremo allora al crollo dell'occupazione nei prossimi decenni? E che cosa accadrà delle nuove leve del lavoro? Dove e come saranno impiegate se anche l'amministrazione pubblica tende a ridurre drasticamente gli impieghi, sostituiti anche qui dalle macchine che dimostrano di sapere fare, con più precisione, una volta impostate, il lavoro degli uomini e delle donne? C'è da prevedere allora un esodo massiccio verso il lavoro autonomo? L'artigiano, che ha dominato l'economia sino al sorgere delle industrie manifatturiere, tornerà a giocare un ruolo determinante nell'economia di domani? Ma fino a che punto? In una realtà che vede diminuire il numero degli occupati e, quindi, le fonti di reddito, non si ridurrà anche la domanda di beni? E allora che cosa accadrà? Se nessuno compra, chi acquisterà le merci e i servizi immessi in grande quantità sul mercato? La riduzione dell'orario a 35 ore settimanali, ipotizzata da alcuni Paesi europei, può rappresentare una soluzione? Non c'è il rischio per i Paesi che l'applicheranno di vedere ridotte le proprie capacità di stare sui mercati. travolti dalla concorrenza di chi può fare leva su costi più bassi?

 

 

Un nuovo corso per lo sviluppo?

 

L'intreccio dei problemi che il Novecento presenta, alcuni dei quali assolutamente nuovi, indotti per esempio come abbiamo visto dall'utilizzazione su larga scala di modernissime tecnologie, ipotizza allora un diverso modo di intendere lo sviluppo? Si apre, nella storia dell'umanità, la ricerca di un corso nuovo nella vita produttiva, sociale, culturale, attento più alle ragioni dell'uomo che a quelle di mercato? O, almeno, le ragioni del mercato dovranno essere ripensate in funzione delle esigenze della società umana che, se non vuole andare incontro a disastri tremendi, deve darsi regole compatibili con i livelli di sviluppo raggiunti? Utilizzando le risorse disponibili, comprese quelle umane, in modo più razionale, nell'interesse generale? Interrogativi sicuramente impegnativi proprio per la complessità dei problemi che sollevano. Ma non gratuiti. Riesce difficile, infatti, eluderli. In questo senso la stessa richiesta di riduzione dell'orario di lavoro a 35 ore ne segnala l'attualità. Anche se si tratta di scelta dettata più dal passato, dalle sue storie, che non dal futuro. Nella convinzione che ci si possa ancora comportare, nella individuazione delle soluzioni, come nel corso del XX Secolo.

 

 

La rivincita dell'utopia

 

Alla fine della sua corsa, il Novecento sembra riproporre le speranze e i sogni che ne hanno accompagnato la nascita e che a milioni di uomini e di donne hanno fatto intravedere prospettive di sviluppo ancorate alle esigenze di tutta l'umanità.

L'utopia si sta, dunque, prendendo le sue rivincite?

Il fatto di dovere ridisegnare l'organizzazione stessa della società, assediata da problemi che non lasciano scampo, non rappresenta forse il tentativo di recuperare ragioni che sono state alla base di movimenti rivolti a esaltare i grandi valori di libertà, di emancipazione dal bisogno, di eguaglianza?

Il riferimento insistito della Chiesa e, in modo particolare di Papa Woityla, alla dignità dell'uomo non riassume orientamenti, diversi per origine e cultura ma tutti ugualmente tesi a riproporre gli interessi dell'umanità intera al centro dell'attenzione delle generazioni che vivranno l'inizio del Terzo Millennio?

I valori che, nella crisi generale di questa fine di Millennio sembravano uscire devastati dalle ferree leggi di mercato, assunto (e non si sa bene perché) da tutti ‑a destra e a sinistra‑ come regolatore principe dei rapporti fra gli uomini, riassumono un ruolo decisivo, risospinti sulla scena della storia non dalle ideologie ma dagli stessi meccanismi di sviluppo che non tollerano più le contraddizioni che questi meccanismi inducono?

 

 

La democrazia partecipata sola ancora di salvezza?

 

Ma a chi affidare il compito di mettere mano ai problemi che si sono affastellati lungo il percorso del Novecento e di cui, a volte, non c'è riscontro nella storia e nella cultura del passato?

Chi dovrà assumersi la responsabilità di mettere a punto un progetto che, nel rispetto pieno del patrimonio di valori accumulato sin qui, dove libertà, democrazia, giustizia, solidarietà, tolleranza trovano largo spazio nella coscienza dei singoli e collettiva, orienti lo sviluppo verso nuove e straordinarie prospettive?

Non ci troviamo forse, come è accaduto durante la seconda guerra mondiale, di fronte al pericolo rappresentato dalla barbarie dei regimi autoritari, nella urgente necessità di fare di nuovo appello alla società civile, alla gente, alle grandi masse popolari invitandole non solo a schierarsi ma ad assumere un ruolo preciso nella costruzione di nuovi criteri di sviluppo?

La partecipazione, allora, come sola ancora di salvezza per le democrazie in crisi, incapaci di risolvere, dentro i vecchi schemi, i grandi problemi del nostro tempo?

Le difficoltà, le contraddizioni, i drammi che si sono accumulati sulla soglia del Terzo Millennio, quali siano i problemi (economici, politici, etici), rivelano che senza il contributo di tutti e, comunque, di settori sempre più vasti e significativi della società civile, è impossibile uscire da difficoltà, contraddizioni, drammi.

Disponiamo di un'esistenza più lunga ma paradossalmente non sappiamo come gestirla.

Disponiamo di tecnologie in grado di moltiplicare la ricchezza ma per settori sempre più vasti si profilano nuovi orizzonti di povertà.

Una gestione più razionale e moderna delle risorse naturali consente di realizzare trend produttivi straordinari, capaci di sfamare l'intera umanità, ma invece di esaltare queste possibilità, gratificando sotto il profilo professionale e morale, chi le utilizza, imponiamo limiti che suonano condanna a chi muore di fame e offesa alla coscienza universale.

Problemi etici (come la moralità pubblica) restano insoluti, nonostante l'impegno della magistratura, per la impossibilità oggettiva di risolvere gli impedimenti determinati dal groviglio di interessi che li generano non disponendo di strumenti adeguati alle esigenze e, soprattutto, di un progetto di architettura istituzionale che consenta alla società civile di assumersene la responsabilità. Risultando chiaro che anche la moralità è problema di democrazia.

 

 

Il ruolo decisivo della scuola

 

Ma come è possibile per la società civile, in tutte le sue componenti, assumersi la responsabilità di problemi che non trovano più posto, per la loro soluzione, nei vecchi schemi culturali? Se il secolo ventesimo ha segnalato situazioni nuove e, per molti aspetti, straordinarie a chi deve essere affidato il compito di affrontarle? Se i vecchi gruppi dirigenti, selezionati secondo criteri che appartengono alle logiche di potere del passato dove decisiva risulta l'origine sociale, familiare, politica o l'appartenenza a lobby di ogni tipo, quali le strade da percorrere per mettere tutti nelle condizioni di disporre degli strumenti culturali necessari per capire, scegliere e decidere?

La scuola sicuramente è la sede più importante per la formazione delle nuove generazioni. L’allargamento della scuola dell'obbligo, la possibilità di accedere a tutti gli ordini dell'istruzione per settori sempre più vasti della popolazione, la disponibilità di una strumentazione sempre più ricca e moderna che consente il collegamento con l'universo rafforzano questo ruolo. Anche se risulta decisivo, ai fini della costruzione di una democrazia partecipata, orientare la scuola diversamente. In questo senso, l'Istituto didattico Pedagogico della Resistenza ha parlato di vera e propria rifondazione della scuola, impostata non più solo come è accaduto sino a ieri per la preparazione dei giovani nelle arti e nei mestieri ma per l'impegno civile, dotandoli di tutti gli strumenti culturali che sono necessari per assumersi, a tutti i livelli, responsabilità pubbliche.

Il futuro delle società democratiche ‑inutile nascondercelo‑ dipende soprattutto dalla scuola dove i giovani maturano una consapevolezza più precisa dei problemi che dovranno affrontare e, quindi, in relazione a questa consapevolezza, anche una più ampia capacità propositiva.

Può darsi che una simile prospettiva dispiaccia a chi ha gestito, nel quadro della democrazia tradizionale, il potere. Il fatto che sul mercato della politica irrompano milioni di giovani preparati renderà più difficile l'affermazione delle vecchie logiche. C’è anche da domandarsi se lo stato in cui versa la scuola pubblica (e non solo in Italia) non dipenda proprio da questa preoccupazione. La difesa accanita del carattere professionale della scuola non regge più, però anche per ragioni interne a questa impostazione. I mutamenti in atto nell'organizzazione produttiva e dei servizi, l'impiego a ritmi sempre più veloci delle nuove tecnologie, la scoperta di sistemi e strumenti assolutamente nuovi vanificano una cultura tutta tesa a fornire una preparazione professionale. La conoscenza appresa a scuola di una macchina o di un impianto risulta spesso, per non dire quasi sempre, vanificata dall'introduzione di nuove macchine e di nuovi impianti quando si entra nel mondo del lavoro. Piaccia o no, anche oggi, se non più di ieri, si impara a lavorare, lavorando. Ammesso ‑e non concesso‑ che le occasioni di lavoro non manchino.

Ecco perché, fatta salva una base tecnico‑scientifica ancorata alle esigenze dell'organizzazione produttiva e dei servizi, la scuola dovrà preoccuparsi soprattutto di preparare dei cittadini, in grado di muoversi all'intero di società sempre più complesse.

Ne va del futuro della democrazia.

Almeno a noi così sembra. La lezione del Novecento è, a questo proposito, chiara.

Ecco perché ne sollecitiamo la rivisitazione in modo approfondito.

Ecco perché invitiamo a mettere sotto i riflettori la Resistenza per quello che ha rappresentato nella storia delle società democratiche che vogliono non solo sopravvivere ma svilupparsi, mantenendosi in sintonia con le esigenze del nostro tempo. Un tempo frenetico, carico di problemi e pure di drammi, ma aperto anche a prospettive affascinanti di sviluppo civile.

 

 

CRONOLOGIA RAGIONATA

 

Il 28 giugno 1914 vengono assassinati -a Saraievo- l'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austriaco, e sua moglie durante un attentato dello studente bosniaco dell'organizzazione "Unità o morte". E' la scintilla che provocherà la prima guerra mondiale.

 

Gli avvenimenti precipitano. L'Impero Austro‑Ungarico lancia il 23 luglio, dopo avere ottenuto il pieno appoggio della Germania, un ultimatum di 48 ore alla Serbia. Avendo ottenuto una risposta negativa, il 28 viene dichiarata la guerra. Il 30 la Russia, in appoggio alla Serbia, decide la mobilitazione generale. Il primo agosto la Germania, in risposta, dichiara guerra alla Russia. Le tensioni che l'inizio di secolo aveva registrato e che l'attività diplomatica non era riuscita a risolvere finiscono in una tragedia che coinvolgerà tutta l'Europa, il Medio Oriente e alcune regioni dell'Africa, con particolare riguardo ai possedimenti coloniali tedeschi. Francia, Inghilterra e, quindi Italia, Romania e Grecia scendono in campo a favore dell'Intesa. I tentativi operati dall'Austria di impedire l'entrata in guerra dell'Italia con alcune concessioni territoriali falliscono. Gli appelli alla neutralità di Giovanni Giolitti non troveranno ascolto.

 

Dal 1914 al 1918 gli eserciti si fronteggiano con alterna fortuna. I tentativi tedeschi di aggirare la linea Maginot francese attraverso l’invasione del Belgio falliscono. I francesi riescono prima a bloccare sul proprio territorio le armate tedesche e, quindi, con l'aiuto degli alleati a respingerli. La guerra si prolunga oltre ogni previsione. Muoiono a centinaia di migliaia i giovani. Alla fine, si conteranno quasi 10 milioni di morti. I dati ufficiali registrano: 1.808.600 caduti tedeschi; 1.700.000 russi; 1.386.000 francesi; 1.200.000 soldati caduti nell'esercito austro‑ungarico; 947.000 inglesi; 600.000 italiani; 360.000 serbi; 326.000 turchi; 250.000 rumeni; 115.000 americani.

 

I trattati di pace che verranno firmati, dopo la sconfitta della Triplice, fra il 1919 e il 1920 si lasciano dietro dolore, distruzioni, uno stato di crisi profonda delle economie dei vari Paesi che hanno partecipato al conflitto, rancori e rabbia.

 

La costituzione della Società delle Nazioni nel 1919 e la sua entrata in funzione nel 1920 non riesce a mettere ordine in una situazione caratterizzata da proteste violente in quasi tutti i Paesi.

 

Nel 1917 la Russia aveva dato il là con la Rivoluzione d'ottobre. Ma proteste nelle fabbriche e ammutinamenti negli eserciti si segnalano anche in Germania, in Austria, in Francia, in Italia e su quasi tutti i fronti dove gli Stati Maggiori decidono di intervenire con arresti, fucilazioni, decimazioni.

 

La pace non arresterà queste proteste. La grande carneficina ‑proprio per le nuove tensioni determinate‑ consoliderà in vasti strati della popolazione la convinzione circa la sua inutilità.

 

Inflazione, disoccupazione, aumento vertiginoso del costo della vita determinano situazioni esplosive. La rivoluzione bolscevica appare a vasti settori della classe operaia come una via d'uscita dalle situazioni disperate in cui milioni di famiglie sono precipitate.

 

Le società democratiche si dimostrano incapaci, anche perché divise al loro interno, di fare fronte alla crisi.

 

Fra il 1922 e il 1936 si instaurano in molti Paesi europei regimi autoritari. Nell'ottobre del 1922 il fascismo prende il potere in Italia. Nel giro di sei anni, tutte le libertà civili vengono soppresse. Nell'Unione Sovietica, si afferma il, regime dittatoriale di Stalin con l'eliminazione di tutti gli oppositori esterni e interni al Partito Bolscevico. Nel 1923 si instaura una dittatura militare in Bulgaria. Nello stesso anno, il generale Primo De Rivera prende il potere in Spagna. Nel 1926, la Polonia, il Portogallo, la Lituania instaurano governi autoritari. Dal 1929 al 1932, si assiste all’affermazione di governi dittatoriali anche in Jugoslavia e in Romania. Nel 1933 prende il potere in Germania Hitler. Nello stesso anno, un regime autoritario si instaura in Austria. Nel 1934 è la Lettonia a darsi una dittatura presidenziale. Colpo di Stato in Grecia nel 1936 ad opera del generale Metaxas. Nel settembre dello stesso anno, il generale Franco capeggia la rivolta contro il governo repubblicano spagnolo instaurato dopo la vittoria elettorale del fronte popolare (16 febbraio 1936). E' la risposta, la sola risposta, che i gruppi dirigenti sanno dare al problemi che le società moderne presentano, in termini spesso esasperati.

 

In una situazione di crisi generale, la Società delle Nazioni rivela tutta la sua organica debolezza, rinunciando ad assumere nei confronti dei processi di liquidazione delle libertà democratiche un atteggiamento fermo. Le sanzioni proclamate contro l'Italia per l'intervento di Mussolini in Abissinia lasciano il tempo che trovano. Molti Paesi, fra cui la stessa Italia (1936), lasciano l'organizzazione. Il massiccio riarmo della Germania non trova censure di rilievo. Non si va al di là delle parole.

 

Fra il 1936 e il 1939 si moltiplicano gli atti di forza e di aggressione. La guerra civile in Spagna, scatenata dal generale Francisco Franco contro il governo legittimo, rappresenta il terreno di prova per la utilizzazione di nuove armi e, in modo particolare, dell'aviazione. La Germania nazista e l'Italia fascista appoggiano apertamente Franco con l'invio di uomini e di materiale bellico. A favore del governo legittimo accorrono da ogni parte del mondo volontari contrari al fascismo. Molti anche gli italiani che combattono a fianco delle truppe fedeli al governo.

 

La conclusione della guerra civile di Spagna (1939) con la vittoria di Franco coincide praticamente con l'inizio della seconda guerra mondiale, preparata dalla Germania con l'occupazione della regione dei Sudeti (maggio 1938) assegnata alla Cecoslovacchia dal trattato di pace del 1919.

 

Gli atti di violenza e di aggressione che hanno segnato la seconda metà degli anni trenta (preceduti dalla salita al potere in molti Paesi di regimi autoritari) rappresentano la manifestazione più evidente della debolezza delle democrazie incapaci di far valere direttamente o attraverso la Società delle Nazioni le ragioni iscritte nei trattati di pace e nello stesso Statuto della organizzazione internazionale. A Monaco con l'accettazione della mutilazione della Cecoslovacchia (29 settembre 1938) si lascia praticamente mano libera alla Germania nazista. La violenza, che nello Statuto della Società delle Nazioni era

stata bandita come mezzo per risolvere le vertenze internazionali, trionfa. A Monaco in nome della pace si realizza, in realtà, l'ultimo atto contro la pace stessa. Hitler ritiene di avere oramai la forza per piegare alle sue logiche la politica internazionale. Il primo settembre 1939 le sue armate attraversano il confine polacco. Comincia così la seconda guerra mondiale. Il 3 settembre Francia e Inghilterra intervengono. L'Italia, che ha sottoscritto un patto di alleanza con la Germania, dichiara lo stato di non belligeranza. Entrerà in guerra il 10 giugno 1940, quando si sta profilando la disfatta degli eserciti alleati in Francia (Parigi viene occupata dai tedeschi il 14 giugno 1940).

L'idea che la guerra possa risolversi rapidamente trova largo credito presso il governo italiano. Ma l'illusione dura poco. L'invasione dell'Unione Sovietica (22 giugno 1941) e l'entrata in guerra degli Stati Uniti nello stesso anno (1941) finiranno per determinare il rovesciamento dei rapporti di forza. Prima lentamente e poi, a partire dall'inizio del 1943 con la sconfitta dei tedeschi a Stalingrado (31 gennaio resa delle armate di von Paulus), sempre più rapidamente. Lo sbarco nel luglio del 43 in Sicilia da parte degli alleati e, soprattutto, lo sbarco in Normandia (6 giugno 1944) con l'apertura del secondo fronte costringeranno la Germania alla resa. L'Italia, dopo la caduta del governo fascista (25 luglio 1943) firmerà la resa incondizionata l'8 settembre dello stesso anno. La guerra partigiana che subito dopo si svilupperà in tutto il Paese non occupato dagli alleati coinvolgerà la stragrande maggioranza della popolazione. I movimenti di Resistenza rappresentano uno dei momenti più significativi della seconda guerra mondiale in quanto registrano l'impegno dei civili a fianco dei militari nel grande confronto contro il nazismo e il fascismo. La guerra aveva sconvolto, con l'introduzione di nuove tecniche militari, le antiche divisioni fra militari e civili. Alla fine si conteranno più morti fra i civili (oltre il 50%) che fra i militari. La Resistenza, in tutte le su espressioni, ha rappresentato la risposta delle popolazioni ai responsabili di questa immane tragedia che ha fatto più di 50 milioni di vittime, senza distinzioni fra uomini e donne, fra anziani e bambini.

 

Se la barbarie (espressa in modo impressionante dai campi di sterminio) non ha trionfato, lo si deve anche a questa capacità di reazione della società civile che, in ogni modo, ha manifestato la sua protesta. In armi nelle formazioni partigiane ma anche con gli scioperi, le manifestazioni di strada, i sabotaggi nelle fabbriche e fuori. Famosi gli scioperi in Italia del marzo 1944, in piena occupazione tedesca.

 

La Germania si arrende senza condizioni il 7 e l'8 maggio 1945. Toccherà farlo poi al Giappone (2 settembre 1945).

 

Sei anni di guerra hanno seminato morti, dolore, distruzioni ovunque. Sono più di 50 milioni i morti. Di questi oltre il 50% civili. Ma si tratta pur sempre di dati ufficiali. Come sempre accade quando le tragedie dell'umanità assumono questa dimensione, risulta impossibile, pure nel nostro tempo, tenerne il conto. Anche perché le manifestazioni di crudeltà e di barbarie hanno investito popolazioni intere. Solo nei campi di sterminio dei nazisti sono stati eliminati 20 milioni fra uomini, donne e bambini, di cui circa 7 milioni di ebrei. Ma l’assassinio di massa non riguarda solo i campi nazisti. A Katin in Polonia, vengono sterminati 12.000 ufficiali polacchi per mano dell'Armata Rossa. Stalin, che aveva anticipato i nazisti nella costruzione dei lager, avrebbe fatto durante gli anni del suo potere 20 milioni di vittime (Roi Medvedev: “Lo Stalinismo”, Mondadori 1972), quante se ne sono contate [in campo sovietico] durante la seconda guerra mondiale.

 

I morti della seconda guerra mondiale sono stati 55 milioni, di oltre cinque volte superiori a quelli della prima. I feriti 35 milioni. I dispersi 3 milioni. Il censimento che ne e stato fatto dai vari Paesi dice che sono morti fra il 1939 e il 1945 per quanto riguarda i militari: 13 milioni e 600 mila soldati sovietici; 6 milioni e 400 mila cinesi; 4 milioni di tedeschi; 1 milione 200 mila giapponesi; 60 mila soldati della Gran Bretagna e del Commonwealth; 325 mila americani; 400 mila italiani. Ben più gravi le perdite fra i civili: fra i 7 e gli 8 milioni di ebrei nei campi di eliminazione; 1 milione e 500 mila morti solo per i bombardamenti; dai 20 ai 30 milioni di vittime per la lotta partigiana, le deportazioni nei campi di sterminio e di lavoro, per gli eccidi compiuti dai nazisti con la distruzione delle popolazioni di interi villaggi; 7 milioni di russi; 5 milioni e 400 mila cinesi; 4 milioni e 200 mila polacchi; 3 milioni e 800 tedeschi.

 

La proclamazione della pace è salutata con gioia. L'umanità è convinta, dopo questa drammatica prova, di essersi lasciata alle spalle un capitolo della sua storia. Il 26 giugno 1945 viene fondata l'ONU, l'Organizzazione delle Nazioni Unite, che, in modo solenne, mette al bando la guerra. Vi aderiscono subito 50 Paesi che ne sottoscrivono la Carta (111 articoli). I poteri della nuova organizzazione internazionale vengono estesi rispetto alla Società delle Nazioni, sorta dopo la prima guerra mondiale. Il 15 ottobre la Carta dell'ONU diventa legge per tutti gli aderenti. Il 25 ottobre viene dichiarato "Giornata delle Nazioni Unite".

 

Ma il clima di collaborazione dura poco. Le tensioni, che erano state soffocate dalla esigenza di compiere uniti il massimo sforzo contro nazismo e fascismo, riesplodono presto. Il piano Marshal (1947) di aiuti all'Europa incontra l'opposizione del sistema comunista. Stalin impone a tutti di respingerlo. Le persecuzioni verso gli oppositori riprendono con vigore. Si imbastiscono processi farsa contro i dirigenti dei Partiti comunisti al potere in Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Bulgaria per bloccare qualsiasi tentativo di autonomia. I processi, come quelli degli anni trenta in URSS, finiscono tragicamente, vale a dire con l’eliminazione fisica (salvo che in Polonia) dei possibili oppositori.

 

La guerra fredda divide il mondo in due blocchi. Nel 1949 viene costituito il Patto Atlantico con l'adesione di 12 Paesi: Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo, Repubblica Federale Tedesca, Stati Uniti, Turchia. In risposta ad esso, viene costituito nel 1955 il Patto di Varsavia con la partecipazione di Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia. Polonia, Romania, Ungheria, Unione Sovietica. Un anno dopo, nel 1956, vi aderirà anche la Repubblica Democratica Tedesca (RDT).

 

Il clima di tensione che si respira sfocerà ben presto in conflitti armati, sia pure locali. La guerra di Corea (1950‑1953), il Vietnam (prima fase: 1946-’54; seconda fase: 1957-‘75), il conflitto arabo‑israeliano (ininterrotto dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi) danno la misura degli interessi in gioco. Si moltiplicano anche le alleanze militari ed economiche in ogni parte del mondo. L'instabilità regna ovunque.

 

Eppure mai come in questo periodo della storia del Novecento si assiste a una ampia e profonda mobilitazione attorno ai valori di libertà di democrazia, di giustizia. Il vecchio sistema coloniale va in pezzi. India, Cina, la maggior parte dei Paesi africani acquistano l'indipendenza. L'Algeria si sgancia dalla Francia. I vecchi regimi (le monarchie) legati al sistema coloniale crollano. Egitto e Libia diventano repubbliche. I primi decenni della seconda metà del Novecento registrano la generale rivolta contro il colonialismo. I movimenti di liberazione si intrecciano con attività diplomatica intensissima in cui anche l'ONU gioca una parte importante. Moltissimi Paesi del Terzo Mondo si sottraggono alla tutela delle grandi potenze. Nasce così l’alleanza fra i Paesi non allineati, che trova nella Jugoslavia di Tito (Josip Broz, presidente del consiglio dei ministri dal 1945, e della Repubblica dal 1953 al 1980) uno fra i suoi principali punti di riferimento.

 

Le speranze in un diverso modo di concepire e praticare i rapporti sul piano internazionale non vengono soffocate dalla divisione del mondo in due blocchi. Crepe vistose si manifestano all'interno di questa concezione schematica del mondo. L'URSS con Nikita Krusciov (dopo la morte di Stalin nel 1953) condanna le violenze perpetrate dal dittatore in un famoso discorso del 1956; gli Stati Uniti con il presidente John Kennedy (1961-1963) apre al confronto, invitando gli americani alla conquista di nuove frontiere di civiltà; la Chiesa con Papa Giovanni XXIII (1958-1963) fa del dialogo la propria bandiera. Gli incidenti internazionali si intrecciano con le manifestazioni di apertura che tendono a mettere in crisi la guerra fredda.

 

Ma è negli anni ottanta che questa crisi esplode con il recupero pieno dei valori di libertà, di democrazia, di giustizia, di pace. Il sistema comunista, che si è retto sulla violenza, crolla. Nel 1989 l'URSS si sfalda. Si dice per la impossibilità di reggere un'economia che aveva liquidato il mercato. Con tutta probabilità, invece, per non avere accolto la domanda di partecipazione della società sovietica. La Primavera di Praga stava dimostrando nel 1968 che, con questa partecipazione, anche un'economia socialista ‑non rigida, in grado di utilizzare le regole del mercato‑ avrebbe potuto sopravvivere. I carri armati sovietici intervenuti nell'agosto impedirono di verificarlo. Il mercato, così come è sempre stato inteso dal liberalismo più esasperato, deve ancora dimostrare di essere in grado di dare risposta a tutti i problemi del nostro tempo.

 

Il richiamo della Chiesa alla dignità dell'uomo, mortificato spesso proprio dal mercato e dalle sue ferree leggi, rappresenta un ammonimento universale. E' un invito a ragionare su tutte le lezioni del Novecento, secolo terribile ma anche affascinante per le speranze che ha acceso e che meritano tutta l'attenzione degli uomini di buona volontà, impegnati a raccogliere e a tradurre fin dove e possibile il messaggio di chi ha speso la vita per spostare in avanti le frontiere della civiltà. Coinvolgendo in questo sforzo tutti, gli uomini, le donne, i giovani? Per noi non ci sono dubbi. Per questo sulla democrazia partecipata, così come è stata vissuta dalla Resistenza durante la seconda guerra mondiale, è necessario sviluppare la riflessione. Per gli impegnativi appuntamenti di oggi e di domani.

 

 

 

Milano, 25 aprile 1998

 

Istituto Didattico Pedagogico della Resistenza

 

Nuova   bine   editore    Milano

 

 

 

 



 

 

 

 

Quaderni del Pedagogico

La lezione del Novecento (2)

 

 

 

 

 

Autoritarismo

e totalitarismo

nell’Europa

del XX secolo

 

 

 

 

 

 

Lorenzo  Cattoni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lorenzo Cattoni

 

AUTORITARISMO E TOTALITARISMO NELL’ EUROPA DEL XX SECOLO

Origine e condanna delle dittature totalitarie

 

 Autoritarismo e totalitarismo          

 

1. La politica

1.1. I sistemi politici                              

1.1.1. I sistemi totalitari                   

1.1.2. I sistemi autoritari                  

1.2. Lo stato socialista                          

1.3. Lo stato fascista                            

 

2.    Le origini del totalitarismo           

2.1. L'ascesa dei movimenti totalitari           

2.2. La fine della società classista           

 

3.    L'universo totalitario                 

3.1. Il partito totalitario                         

3.2. Il capo                                               

3.3. La propaganda totalitaria                         

3.4. La polizia segreta                            

3.5. L'apparato statale                             

3.6. I campi di concentramento         

 

4. Il ruolo della menzogna nel totalitarismo  

 

5. La storia                                                

5.1. Lo stalinismo                                 

5.2. Il Fascismo al potere in Italia               

5.3. Dalla repubblica di Weimar alla dittatura nazista

5.4. La dittatura franchista in Spagna         

5.5. La diffusione in Europa dei fascismi    

 

6. Conclusioni                                        

6.1. Contro ogni libertà responsabile                     

6.2. Una resistenza "continua" nei confronti del totalitarismo

 Bibliografia                               

 


 

Prefazione

 

         Questo volume ha un’ambizione: quella di fornire, in modo sintetico, alcuni elementi di valutazione delle società autoritarie che hanno caratterizzato il secolo ventesimo. Sicuramente, fra le molte occasioni di riflessione che il Novecento ci ha messo a disposizione ci sono i tentativi, operati da destra e da sinistra, per dare risposte ai molti e complessi problemi del nostro tempo attraverso l’imposizione di regimi totalitari. La descrizione, per forza di cose sommaria, che qui ne viene fatta consente di leggere uno dei capitoli più drammatici della nostra storia recente da cui, al di là dei giudizi di merito che richiedono altri e importanti approfondimenti, si ricava una lezione chiara e precisa: che alla democrazia non ci sono alternative. La sconfitta del fascismo e del nazismo durante la seconda guerra mondiale (1939-1954) e il crollo del sistema comunista nel 1989 hanno rivelato che è impossibile, nel nostro tempo, disegnare una prospettiva di sviluppo civile per l’intero genere umano senza il contributo della società in tutte le sue espressioni. Libertà, democrazia, pluralismo, giustizia, tolleranza sono, insomma, valori da cui no si può prescindere se si vuole dare soluzione positiva alle questioni che ci stanno davanti.

L’irrompere sulla scena della storia delle grandi masse popolari che rivendicano un protagonismo non di maniera ha marcato l’esigenza di chiudere definitivamente con concezioni autoritarie che si sono rivelate, alla fine, ragione di crisi profonde. La seconda guerra mondiale e in modo particolare la Resistenza hanno dimostrato che solo arricchendo il tessuto democratico è possibile creare le condizioni per risolvere contraddizioni vecchie e nuove, per liberare altre energie, per porsi più avanzati traguardi civili. La partecipazione allora come asse di società democratiche che affidano non a pochi ma a tutti il loro futuro.

 

Milano, aprile 1998

 

L’Istituto didattico pedagogico della Resistenza   

 

 

 

Titoli della collana editoriale

Quaderni del Pedagogico - La lezione del Novecento:

Un secolo carico di tragedie e di speranze, di Orazio Pizzigoni;

Terrorismo e servizi segreti, di Alessia Dimitri;

La Resistenza in Europa, di Catia Spagnolo;

Il significato storico e politico della Resistenza, di AA.VV.;

Sviluppo sostenibile e riorganizzazione del lavoro, di Anita Viola;

Democrazia, partecipazione dei cittadini e ruolo dei partiti politici, di AA.VV.;

L’assunzione di responsabilità universali e il ruolo dell’ONU, di AA.VV.;

Il ruolo della cultura e della scuola in una società democratica, di Lorenzo Cattoni ed Emanuele Marcora;

Aggressività, violenza, razzismo e tolleranza, di Luca Mazzoleni e Cristiano Poletti.

 

 


 

 

 

Nota introduttiva

 

 

         Le dittature totalitarie, nel nostro secolo, si sono diffuse su tutto il territorio del pianeta: la maggior parte dei riferimenti storici, di questo scritto, riguardano la Germania nazista e l'Unione Sovietica solo perché queste due esperienze sono state maggiormente studiate, e da un punto di vista qualitativo sono i regimi totalitari che sono durati più a lungo e hanno coinvolto nella loro perversa politica milioni di persone.

 


  

 

A Manuela         

per il suo aiuto   

e la sua pazienza

 

 


 

 

 

AUTORITARISMO E TOTALITARISMO

 

 

         L'esplosione di dittature sia totalitarie che autoritarie ha caratterizzato il corso della storia del nostro secolo; in ogni angolo del mondo, soprattutto nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale, si sono diffusi sistemi politici nei quali pochi detenevano il potere ed era concessa scarsa libertà ai singoli cittadini.

         Questi governi hanno basato gran parte della loro politica sull'uso sistematico della violenza, rivolta, all'interno della nazione, verso tutti coloro che potevano diventare dei nemici, all'esterno, verso tutti gli stati che avevano una matrice politica democratica perché "congiuravano" contro il potere totalitario o autoritario. Così facendo il leader di queste nazioni creava uno stato d'instabilità e di insicurezza permanente che ne determinava la forza.

         In queste nazioni non poteva esistere nessun tipo d'opposizione, era necessaria la completa ortodossia (= retta professione di fede) di tutta la popolazione, e chi osava manifestare pareri differenti veniva eliminato.

         Il singolo cittadino non aveva nessuna libertà, non poteva esprimere il proprio pensiero, era costretto ad essere iscritto sin dalla più tenera età alle file del partito, ogni attività, anche il tempo libero, veniva strettamente regolata dalla volontà dei governanti.

         Nelle pagine che seguiranno si cercherà di mettere in luce quali cause hanno portato all'istaurarsi di tali regimi, descrivendo la situazione della società nel periodo e cercando di capire l'atteggiamento della popolazione nei confronti della vita politica, in modo da poterne trarre un insegnamento determinato dalla necessità che nessun uomo ricada sotto un regime totalitario.

         Il primo passo che compiremo sarà la spiegazione dei termini usati, cercando di comprendere le caratteristiche principali dei sistemi politici autoritari e totalitari (senza dimenticarci che nella realtà non esistono differenze nette ma confini sfumati); in secondo luogo analizzeremo - in maniera agile e schematica - la situazione storica dei diversi paesi coinvolti direttamente in questi fenomeni.[1] Sarà possibile così trarne delle conclusioni utili per imparare dalla storia come comportarci nella nostra vita.


 

 

1. LA POLITICA

 

 

1.1. I sistemi politici.

1.1.1. I sistemi totalitari.

         I sistemi totalitari sono l'estremizzazione della dittatura dispotica, all'interno dei quali non esiste nessuna libertà per i cittadini: in questo sistema di governo il potere è nelle mani di un unico partito che regola tutte le espressioni della vita; ogni associazione sia sportiva, culturale o sociale deve essere sotto il controllo del partito e non esiste alcun confronto tra gruppi diversi.

         Gli storici hanno individuato sei caratteristiche fondamentali del sistema totalitario[2]:

1.   Un'ideologia ufficiale, alla quale viene ricondotta ogni espressione della vita ed è indirizzata alla realizzazione di uno stato finale e perfetto dell'umanità.

2.   Un solo partito di massa guidato da un uomo -il dittatore- che coinvolge nelle sue fila una bassa percentuale della popolazione (10%-20%).

3.   Un controllo di polizia terroristico, rivolto nei confronti di ogni singolo cittadino, ma anche all'interno dello stesso partito.

4.   L'utilizzo e il controllo di tutti i mezzi di comunicazione di massa, grazie anche all'uso delle più avanzate tecnologie e ad una censura estremamente rigida.

5.   Il controllo da parte del partito di tutte le forze armate.

6.   La direzione centralizzata di tutta l'economia del paese.

         Il totalitarismo si è potuto trasformare in realtà solo nel nostro secolo; infatti anche nel passato c'erano state tendenze di questo tipo, ma era sempre mancato l'apporto fondamentale della tecnologia. Il progresso scientifico e tutti i mezzi di comunicazione di massa, per esempio la radio e il cinema, furono utilizzati da parte dei regimi totalitari per impadronirsi del controllo delle opinioni di migliaia di cittadini. Una delle caratteristiche fondamentali del totalitarismo è proprio la pretesa di "identificarsi con l'intera vita dei suoi cittadini";[3] in uno stato di questo tipo non ci può essere alcuna distinzione tra la sfera politica e quella privata, tutto è dovuto al partito che è la nazione, lo stato.

         Il movimento totalitario è rivoluzionario, la sua ideologia è rivolta alla creazione di un nuovo ordine; non si vuole restaurare nessuna situazione precedente, per raggiungere la meta è necessario abbattere completamente la società in tutti i suoi aspetti.

         Un altro elemento importante per la nascita del totalitarismo è la presenza di un leader carismatico, che è fondamentale soprattutto per la presa del potere da parte del movimento totalitario; un volta che il regime è instaurato ed è "maturato" la presenza di un leader eroico è meno necessaria, sebbene vi sia sempre presente un culto della persona. Il capo supremo del regime è dotato di un potere assoluto, è il modello da seguire; egli è direttamente a contatto con l'ideologia che dirige la rivoluzione.

         L'avvicendamento dei capi, che è uno dei problemi fondamentali di ogni dittatura, viene risolto dal sistema totalitario maturo; infatti il partito unico, che è il depositario del potere, studia delle strategie per rendere rapide ed indolori le successioni dei leader. I passaggi di potere meno traumatici si sono rilevati nell'URSS, probabilmente l'unico stato dove il totalitarismo ha percorso tutto il suo itinerario.

         Anche l'ideologia perde valore dopo che il regime ha consolidato il proprio potere; nelle prime fasi infatti i leader si richiamano spesso ad essa, anche se nella maggior parte dei casi in maniera demagogica (Demagogia = modo di accattivarsi il favore del popolo per dominarlo) senza entrare nei particolari, ma col passare del tempo sia le parole che le azioni di chi possiede il potere si allontanano dall'ideologia.

         Il controllo terroristico della polizia non viene mai allentato; anche dopo la completa eliminazione degli oppositori, essa continua ad operare indagando e imprigionando cittadini semplici e perfino alti funzionari del partito. Questo controllo continuo crea una situazione di sospetto - lo ha fatto sia nella Germania nazista che nell'URSS - nella quale nessuno si fida del proprio prossimo, infatti tutti coloro che hanno avuto dei contatti con qualche indiziato possono essere incriminati per complicità. In questa situazione molti erano pronti ad accusare pubblicamente i propri vicini e i propri parenti, anche ingiustamente, per dimostrare la fedeltà al partito ed evitare di essere coinvolti nelle "purghe". Per i nemici dello stato ci sono sempre stati ospedali psichiatrici e campi di concentramento.

         Il regime totalitario usa i mezzi di comunicazione di massa come strumento di propaganda, cerca di assicurarsi la fedeltà dei più noti scrittori ed artisti in modo che essi divengano i cantori del partito; di conseguenza il regime è spietato con gli intellettuali che esprimono idee d'opposizione.

 

 

1.1.2. I sistemi autoritari.

         Nei regimi autoritari sopravvive un pluralismo politico limitato; questo accade perché il movimento che s'impossessa del potere non ha abbastanza forza per scontrarsi e sottomettere tutti i gruppi presenti sul territorio (per esempio le forze armate o la chiesa). Questi, però, non hanno alcuna possibilità di partecipare alle decisioni politiche e non vi è di conseguenza un vero pluralismo politico, non essendoci confronto tra posizioni differenti.

         Lo stato autoritario è guidato da un capo meno carismatico rispetto ai leader totalitari, egli infatti deve essere soprattutto un mediatore, deve sapersi muovere in maniera meno eclatante ed appariscente dando meno pubblicità alle proprie azioni. Il leader "deve il suo ruolo a diversi fattori: all'aver iniziato il processo che ha portato all'instaurazione del sistema autoritario, all'essere spesso espressione dell'istituzione più forte [...], infine alle sue capacità di mediazione";[4] in questi sistemi non vi è alcun culto del leader.

         Il movimento che detiene il potere non è rivoluzionario, il suo intento è quello di ristabilire una situazione precedente; il partito che guida il movimento non ha un'ideologia ma è mosso da un insieme di idee tradizionali, conservatrici; anche il modo di agire del capo si "esercita secondo moduli di routine"[5] in maniera burocratica.

         In questi sistemi la popolazione non viene sottoposta ad uno spietato controllo di polizia, perché il movimento non intende essere la spina dorsale della vita dei cittadini, vuole solamente detenere il potere dividendo la società in vincitori e vinti.

         Il sistema autoritario non riesce, però, ad assicurare una successione tranquilla del proprio capo, che è garantita nei sistemi totalitari dall'esistenza dell'ideologia: il leader è colui che la interpreta  e ne è a stretto contatto, egli dirige il movimento per conto di essa, anche il partito totalitario ha uno stretto contatto con l'ideologia: soprattutto è strutturato per diffondere la "buona novella" nel mondo, e nei suoi ranghi si troverà, senza troppi conflitti, il nuovo "profeta" pronto a dirigere la conquista del mondo. Invece il capo di un movimento autoritario si trova al potere grazie alle sue capacità e difficilmente si potrà trovare, anche tra gli individui a lui vicini, un'altra persona con le medesime qualità.

 

1.2. Lo stato socialista.

 

In queste pagine non intendiamo sostenere che esista una equivalenza tra la teoria politica nazista e quella socialista, perché come ricorda Jean Daniel in una recente intervista: “Questa identificazione è inaccettabile: un giovane non aderisce al nazismo o al comunismo per le stesse ragioni. Per passare dal socialismo utopista a Marx, dalla filosofia del giovane Marx a quella di Marx del Manifesto, da Marx a Engels, da Engels a Lenin e da Lenin a Stalin, sono stati necessari una serie di passaggi, di mostruose evoluzioni... invece Hitler è stato subito Hitler”.

 

         Lo scopo principale di uno stato socialista è la trasformazione radicale della società, l'abolizione di tutti gli steccati di classe, di ogni tipo di privilegio per poter rifondare la comunità sull'eguaglianza di tutti i suoi membri.  Per questo progetto è fondamentale la riduzione della burocrazia e della centralizzazione statale affinché il potere possa essere ridistribuito e diviso nella società.

         La dottrina marxista è il punto di riferimento di ognuno di questi stati; in essi il partito comunista si identifica con lo stato stesso: non possono esistere altri partiti, perché quello comunista ha il compito di guidare la popolazione verso la trasformazione socialista della nazione. La dittatura di partito presente in questi stati li differenzia dalle altre nazioni guidate da partiti d'ispirazione socialista dove la struttura politica è democratica-parlamentare, aperta a diversi contenuti ideologici, mentre nello stato socialista ogni deviazione viene considerata reato.

         Il partito-stato dirige anche l'economia nel tentativo di distruggere quella capitalista sostituendola con una socialista giudicata più equa e giusta.

         L'Unione Sovietica fu il più importante stato socialista, modello e guida di tutti gli altri, ma nel corso degli anni i governanti dovettero man mano allontanarsi dai principî ispiratori: sostituirono alla burocrazia statale quella del partito, rinunciarono all'autogoverno delle masse, trasformando così lo stato socialista in una dittatura del partito comunista.

 

 

1.3. Lo stato fascista.

         Sotto questa definizione gli storici raggruppano un insieme eterogeneo di stati, partendo dall'Italia e dalla Germania, che ebbero esperienze collegate a movimenti fascisti (= movimenti che intendevano realizzare dittature a carattere nazionalistico) con tratti generali assimilabili.

         In ogni stato fascista il potere è detenuto da un dittatore, il capo del partito unico, con poteri eccezionali; la struttura politica è piramidale, il vertice  detiene quasi tutti i poteri, il governo assomma sia quello legislativo che l'esecutivo, mentre la base non ha neppure le principali libertà civili e politiche, ed ogni sorta di pluralismo viene impedita.

         Il fatto che i regimi fascisti siano basati sull'esistenza del partito unico li annovera nella categoria degli stati totalitari; i regimi autoritari si poggiano infatti su di una, seppur minima, pluralità politica.       

         L'economia nello stato fascista rimane capitalista, poiché lo scopo dei suoi governanti non è la creazione di una società democratica (meta degli stati socialisti) ma il rafforzamento politico economico della nazione, raggiungibile attraverso un autoritarismo gerarchico che esalta la funzione delle classi preminenti.

         Si possono notare alcune differenze tra i principali stati fascisti: il movimento italiano mantenne la struttura politica dello stato esistente, infatti Mussolini era il capo del governo, subordinato (anche se solamente formalmente) al re; quello tedesco invece lo mutò: infatti Hitler assunse le cariche, fino ad allora distinte, di capo del governo, presidente dello stato e comandante delle forze armate. In secondo luogo il fascismo italiano considera lo stato come entità suprema e piena realizzazione del movimento, mentre il nazionalsocialismo tedesco utilizzò lo stato come mezzo per la creazione della "comunità popolare ariana" fondata su una base razziale.

 


 

 

2. LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO

 

 

         I movimenti totalitari nel breve arco di tempo che intercorre tra le due guerre mondiali hanno avuto un incredibile successo. Gran parte della popolazione è stata attratta dalla loro propaganda e ha partecipato attivamente al regime, infatti né Hitler "né Stalin avrebbero potuto mantenere il dominio su vaste popolazioni, superare molte crisi interne ed esterne, affrontare gli innumerevoli pericoli delle implacabili lotte intestine se non avessero goduto della fiducia delle masse".[6]

         Per noi il problema da affrontare è quello di capire questo successo irresistibile dei movimenti totalitari per le masse e l'unico modo per farlo è quello di esaminare la situazione sociale dell'Europa del dopoguerra.

         La prima guerra mondiale creò grossi disagi economici per la popolazione: i contadini dovettero abbandonare il loro lavoro per combattere nelle trincee e alla fine delle ostilità volevano essere ripagati dei loro sacrifici; nel corso delle battaglie i governi avevano fatto molte promesse di miglioramento sociale che non avrebbero potuto mantenere (tra cui quella di distribuire la "terra ai contadini").

         La guerra fu disastrosa per la piccola borghesia, perché questa classe perse molto del suo prestigio, vide i suoi patrimoni dileguarsi nel nulla a causa dell'inflazione; i giovani di questo ceto furono arruolati come ufficiali di complemento (= da affiancare ai professionisti) e acquisirono così posti di responsabilità nell'esercito, ma alla fine del conflitto, una volta congedati, non riuscirono a reinserirsi nella società.

         Nel corso delle ostilità alcuni settori industriali (metallurgico, meccanico, chimico e tessile) crebbero a dismisura; gli imprenditori poterono operare in una situazione particolarmente favorevole, infatti tutte le norme del libero mercato non furono rispettate e soprattutto tutti i diritti dei lavoratori furono travolti.

         I salari divennero bassissimi, scioperi e riunioni sindacali furono vietati, i dirigenti impararono a comportarsi in maniera totalitaria, crebbe l'utilizzo di manodopera femminile e minorile sotto pagata. Alla fine della guerra cessarono anche le richieste di produzione e molte di queste industrie dovettero riconvertire gli impianti licenziando in blocco centinaia di lavoratori.

         Le strade delle città europee erano piene di gente in cerca di lavoro, c'erano gli  ex-combattenti e i licenziati dalle fabbriche; nella sola Germania si contarono 5 milioni di disoccupati: in questa situazione aumentò vertiginosamente la criminalità.

         L'inflazione colpiva tutta la popolazione, anche quella occupata perché diminuiva il potere d'acquisto dei salari; in Italia il prezzo del pane era cresciuto di tre volte rispetto a prima della guerra, mentre quello della carne bovina di sei volte. Gran parte della popolazione dell'Europa dell'est era costretta alla quotidiana ricerca di cibo.

         Nel corso degli eventi bellici e negli anni immediatamente successivi solo alcuni gruppi, estremamente ristretti, ebbero profitti altissimi; la situazione economica incoraggiava ogni sorta di speculazione, nella maggior parte dei casi a spese del popolo affamato.

         Le masse che avevano partecipato alla guerra presero coscienza della propria forza e si affacciarono sulla scena politica richiedendo un miglioramento della propria condizione; scoppiarono i conflitti sociali e la soluzione rivoluzionaria, sul modello di quella bolscevica (1917), attrasse gran parte del proletariato. La società risultava divisa tra chi avendo tratto vantaggio dai sistemi autoritari del regime bellico (l'alta borghesia finanziaria e i "pescecani" che fecero affari d'oro con la guerra) voleva prolungarne gli effetti e chi voleva liberarsi da questi sistemi (gli operai e i contadini), perché ne aveva provato la durezza e l'insopportabilità.

         I ceti medi furono spaventati dalla Rivoluzione d'Ottobre, temevano il propagarsi in tutta Europa di sommovimenti bolscevichi, e di conseguenza appoggiarono movimenti politici con caratteri nazionalisti.

         La crisi economica si prolungò fino al 1921, gettando nella miseria migliaia di persone, dopo di che vi fu un miglioramento e la produzione crebbe, ma la situazione dei cittadini non migliorò. La tregua fu molto breve infatti dopo pochi anni, nel 1929, crollò la borsa di New York e fu un disastro economico per l'intero pianeta.

         Tutti questi fattori misero in luce le debolezze dei governi liberali, aggravandone la crisi, che risultò definitiva nei Paesi, come l'Italia e la Germania, in cui la democrazia aveva pochi decenni di storia alle spalle.

 

 

2.1. L'ascesa dei movimenti totalitari.

         Il successo politico dei movimenti totalitari fu possibile grazie ad una serie di fattori, tra i quali fondamentale fu la paura dei ceti medi di un'imminente rivoluzione socialista. I proprietari agricoli, i commercianti, gli impiegati statali temevano fortemente l'avvento di un regime comunista. Essi vedevano tutti i giorni le manifestazioni degli operai e dei contadini e dovevano confrontarsi con le loro richieste di miglioramento delle condizioni lavorative e salariali.

         Gli appartenenti al ceto medio urbano e contadino erano favorevoli ai movimenti politici che si opponessero al socialismo e, nella speranza di un ritorno alla situazione precedente,  li appoggiarono persino nelle azioni violente al di fuori della legalità.

         Anche i militari appoggiarono il diffondersi dei "fascismi" in Europa; i socialisti nelle loro manifestazioni e nei loro programmi si erano sempre proclamati pacifisti e antimilitaristi, quindi l'esercito era deciso ad affrontare questa forza politica per eliminarla.

         Sia il nazismo che il fascismo italiano si servirono dell'opera dei disoccupati, che furono fondamentali per la propaganda e la diffusione delle idee del movimento e per le azioni squadriste (= spedizioni punitive contro gli avversari del partito).

         In Germania il nazismo poté avere l'importante appoggio economico dei circoli monarchici e dei grandi industriali che nutrivano sentimenti di rivalsa nei confronti degli stati vincitori della guerra che stavano opprimendo l'economia.

         Non bisogna inoltre dimenticare che il terreno tedesco era fertile per la propaganda nazista, in quanto le convinzioni del movimento erano diffuse nella popolazione; opere, come quelle di Gobineau e di Chamberlain, che esaltavano la superiorità della razza ariana rispetto a tutte le altre erano lette da gran parte della popolazione tedesca, e la pubblicazione dei Protocolli di Sion (un falso clamoroso), che trattavano di una congiura ebraica in tutto il mondo, fu un enorme successo editoriale che contribuì al diffondersi dell'antisemitismo.  La forza di Hitler e dei suoi collaboratori fu la semplificazione e volgarizzazione di questi messaggi in modo che la massa potesse comprenderli pienamente ed esserne influenzata.

         I nazisti fecero proseliti nel ceto medio contadino e urbano e nel mondo giovanile.

         Anche il fascismo italiano poté godere dell'appoggio finanziario e politico dei ceti medi, in special modo della borghesia agraria, che si vedeva accerchiata dalle richieste dei contadini (miglioramenti salariali, orari di lavoro, assunzioni durature) e dei commercianti, che si vedevano minacciati dall'attività delle cooperative socialiste. 

         Dal 1920, le autorità politiche e militari fornirono armi, munizioni e camion ai fasci di combattimento, per le loro azioni squadriste contro i socialisti. L'apparato statale era per lo più composto da appartenenti alla borghesia e in questa classe era diffuso un profondo odio antioperaio, per questo essa appoggiò le azioni di violenza contro i socialisti: "la reazione fascista fu diretta da un lato a colpire i dirigenti locali del partito socialista e del movimento operaio mediante bastonature, bandi e assassinii in caso di resistenza e dall'altro a distruggere le sedi delle leghe, delle sezioni socialiste e delle cooperative mediante le cosiddette spedizioni punitive. Queste furono effettuate a centinaia. [...] Chiunque tentava di resistere veniva ferito o ucciso, in genere dopo le spedizioni nascevano nuovi fasci nei paesi colpiti".[7]

         Le squadre d'azione erano composte da "giovani (ufficiali di complemento da poco congedati, arditi, ex legionari dannunziani, studenti) animati dalla convinzione che i socialisti fossero da combattere perché antinazionali"[8] e da disoccupati che non avevano altra via per guadagnare qualche lira.

         Anche dei lavoratori si unirono al movimento fascista: ormai erano scontenti e delusi dalle organizzazioni socialiste e si lasciarono attrarre dalla demagogia di Mussolini.

 

 

2.2. La fine della società classista.

         La disgregazione della società classista che avvenne dopo la fine della prima guerra mondiale fu tra le cause del successo dei movimenti totalitari e fu il motivo principale dell'appoggio dato dalla popolazione ai regimi conseguenti[9].

         Tutte le democrazie liberali ottocentesche erano fondate sulla convinzione che la maggior parte dei cittadini partecipasse alla vita politica per lo meno simpatizzando per un particolare partito; la democrazia era possibile perché tutti erano uguali dinanzi alla legge. Ogni cittadino, per far valere questo suo diritto, doveva riconoscersi all'interno di una classe, in un gruppo che difendesse gli interessi comuni.

         Per il sistema democratico parlamentare le masse non contavano nulla perché non esprimevano opinioni, non partecipavano attentamente alla vita politica. "Che la maggioranza del popolo rimanesse esclusa da questa politica come da qualsiasi organizzazione o partito non interessava a nessuno, e ciò valeva per tutte le classi".[10] La maggior parte dei cittadini non si rendeva partecipe alla vita dello stato, lasciava che qualcun altro, appartenente alla stessa classe e politicamente esperto, si interessasse di curare gli interessi di tutti.

         "Questo carattere apolitico della base dello stato nazionale venne in luce quando il sistema classista cadde in rovina provocando la recisione degli innumerevoli fili [...]  che avevano legato il popolo al sistema politico".[11]

         Le maggioranze, alla fine della prima guerra mondiale, divennero una grande massa di scontenti, disperati ed esclusi dalla società: quando si risvegliarono nessun interesse in comune poteva legarli, non vi era niente che le interessasse, neppure la conservazione del proprio io: "all'egocentrismo (nato dalla disgregazione della classe e degli interessi in comune che essa proteggeva -n.d.a.-) si accompagnò [...] molto spesso un indebolimento dell'istinto di autoconservazione".[12]

         Gli appartenenti alla massa erano completamente isolati socialmente, e distaccati dalla realtà concreta. Molto spesso erano propensi a non credere nella loro esperienza quotidiana, erano convinti che tutta la società fosse una finzione, una sovrastruttura. La massa fu affascinata dalla propaganda dei movimenti totalitari perché questa le dava la possibilità di stringere un forte legame  con il partito, che le avrebbe permesso di far parte della storia: la sua vita sarebbe stata spesa per una causa che avrebbe superato i secoli e sistemato il mondo.

         L'esperienza sovietica dimostra come l'esistenza di queste masse di uomini isolati l'uno dall'altro sia necessaria per l'istaurarsi di un regime totalitario: "per trasformare la dittatura rivoluzionaria di Lenin [...], Stalin dovette prima creare artificialmente quella società atomizzata che in Germania per i nazisti era stata preparata dagli avvenimenti storici"[13]. Lenin alla fine della rivoluzione distribuì le terre ai contadini facendone dei piccoli possidenti, creò nuove nazionalità dal nulla: "Lenin puntò subito su tutte le possibili differenziazioni, sociali, nazionali, professionali, capaci di introdurre delle strutture nella popolazione, nella palese convinzione che tale processo stratificatore avrebbe costituito la salvezza del potere rivoluzionario".[14]

         Stalin per trasformare l'Unione sovietica in un regime totalitario  dovette colpire le classi e le nazionalità create dal suo predecessore; dapprima fece una terribile purga contro i possidenti terrieri (i Kulaki), in seguito affrontò persino la burocrazia del partito. In queste continue purghe tutti potevano essere accusati di cospirare contro lo stato, processati ed eliminati. Il semplice rapporto con un inquisito poteva comportare indagini sul proprio conto da parte della spietata polizia politica. Il merito dei cittadini era valutato in base al numero delle denunce presentate contro i propri vicini. La conseguenza di questo regime del terrore fu che nessuno si fidava del proprio prossimo, tutti i legami, persino quelli più stretti, si erano persi. Tutti erano isolati: l'unica ancora di salvezza era il partito, il dittatore.

         Il movimento totalitario dava una spiegazione della vita, giustificava ogni singolo avvenimento e sostituiva per questi uomini, tutti i legami familiari e sociali. Per questo tutti loro lo serviranno fino alla fine arrivando ad accusare se stessi di tradimento per non fermare la realizzazione del piano di sviluppo della rivoluzione, che era stato rivelato solo al leader e al partito, per l'affermazione della razza ariana (nel caso del nazismo), del proletariato (nel caso dello stalinismo).

         La massa è fondamentale per un regime totalitario anche da un punto di vista numerico; sia il movimento che la conseguente dittatura devono dimostrare il loro potere con i numeri, devono avere a disposizione una grande quantità di vite da sacrificare sull'altare della rivoluzione.

 


 

 

3. L'UNIVERSO TOTALITARIO

 

 

         I movimenti totalitari hanno instaurato dei regimi terribili, nei quali regnava la violenza e nessuno - tranne il capo - sapeva come comportarsi per potersi salvare.

          L'ideologia che sta alla base di questi movimenti li trasforma in regimi del sospetto e del terrore. Il partito totalitario, infatti, si considera come il portatore di un nuovo messaggio per la salvezza: bisogna abbattere tutto ciò che esiste nella società e creare un ordine nuovo e forgiare un uomo nuovo, un uomo totalitario.

         Per l'ideologia totalitaria il mondo è diviso nettamente in due grandi fazioni, la prima è quella del bene, rappresentata dal movimento, la seconda è quella del male nella quale confluisce tutto ciò che non è contemplato dal partito.

         Il movimento è sempre in marcia, in moto per la realizzazione della rivoluzione, che si completerà solamente quando tutti i nemici saranno eliminati[15] e tutti gli uomini entusiasticamente avranno aderito alla dottrina di salvezza.

         L'ostilità della società verso il messaggio rivoluzionario fa sì che tra il movimento ed essa si stabilisca una situazione di guerra permanente; cosicché gli aderenti al partito totalitario si sentono parte di un "avanguardia cosciente e attiva di un moto storico che si concluderà con l'istaurazione del Regno finale",[16] circondati da nemici che continuamente cercheranno di impedire la realizzazione del progetto di salvezza.

         I movimenti totalitari sono "organizzati ufficialmente solo come risposta a immaginarie congiure mondiali";[17] questa paura della congiura rimane perfino quando il partito ha conquistato il potere; infatti tutti gli uomini sono potenzialmente dei nemici, persino quelli che fino ad allora si erano entusiasticamente messi al servizio della Rivoluzione, perciò non bisogna mai abbassare la guardia  e non ci si deve mai fidare di nessuno: il regime trova una soluzione a questi problemi grazie ad una struttura complessa, confusa - in cui tutte le funzioni sono per lo meno duplicate - che ad una prima impressione sembra inutile, tramite la quale si protegge.

 

 

3.1. Il partito totalitario.

         La struttura di un partito totalitario è stata paragonata a quelle degli ordini monastici che, come i gesuiti, avevano una struttura disciplinare di tipo militare, perché i suoi componenti devono fare un atto di sacrificio per entrarvi e, da questo momento in poi, saranno completamente a disposizione dei superiori, senza  discussioni; l'individualità di ogni adepto dovrà dissolversi nell'unità complessa del movimento: non c'è differenza tra l'io e il noi in un partito totalitario così come all'interno di un convento.

         Il primo compito che il partito totalitario si prefigge è il diffondere l'ideologia, la sua è una missione di salvezza che deve essere comunicata a tutti gli uomini, l'importante è che la gente cambi le proprie opinioni e abbracci l'ideologia; i mezzi che il partito usa per provocare le conversioni sono la propaganda, l'indottrinamento e il terrore di massa.

         Una caratteristica fondamentale dei partiti totalitari è la natura marziale dei loro ordini, in modo che tutto sia gerarchizzato e che il movimento possa difendersi nei confronti della società ostile e sorda al nuovo messaggio rivoluzionario.

         Data la natura sacra del partito ogni aspetto della vita deve essere controllato ed organizzato dallo stesso, perché solamente il movimento è il bene, il gruppo degli illuminati che combatto le forze tenebrose, mentre tutto ciò che è ad esso esterno è l'errore e il male.

         Il partito totalitario è diviso in diversi fronti, ci sono moltissimi simpatizzanti e pochi membri effettivi: "Hitler fu il primo a delineare una politica diretta a ingrossare di continuo le file dei simpatizzanti tenendo allo stesso tempo limitato il numero dei membri del partito";[18] lo scopo di questa divisione, che può essere ripetuta all'infinito all'interno del movimento, è quello di costruirsi una facciata di normalità, sia per la comunità, che trovandosi a contatto con il fronte dei simpatizzanti (che non sono direttamente a conoscenza dei piani del partito) non può percepire la radicalità dei progetti totalitari (l'abbattimento di tutti gli stati e il dominio mondiale), sia per gli attivisti, i quali crederanno che le strade siano piene di amici, di persone che possono appoggiare il movimento da un momento all'altro. "Tale struttura ha il sostanziale vantaggio di attutire l'urto di uno dei fondamentali dogmi totalitari, quello secondo cui l'umanità è divisa [...] in due campi ostili, uno dei quali è il movimento destinato a combattere il mondo intero. [....] Questo tipo d'organizzazione impedisce che i suoi membri si trovino a diretto contatto col mondo esterno, la cui ostilità rimane per essi un'opposizione meramente ideologica, sottratta all'esperienza reale".[19]

 

 

3.2. Il capo.

         Il capo è la figura fondamentale del movimento totalitario, egli è colui che è direttamente a contatto con le forze cosmiche dell'ideologia, di conseguenza è l'unico interprete possibile del messaggio di salvezza ad essa connesso; il suo potere, sciolto da ogni condizione, non è dovuto alle proprie qualità personali ma al suo essere l'unico "profeta" della potenza che ispira la rivoluzione. Da questa rivelazione nasce anche l'infallibilità del capo, che essendo l'ispirato non può infatti fare delle azioni sbagliate, e ciò che nella contingenza quotidiana può sembrare erroneo, nel corso dei millenni, mostrerà la propria necessità per il successo della rivoluzione.

         Nei suoi confronti tutti hanno un unico dovere: l'obbedienza; egli è il capo supremo e incontestabile, il suo diritto al comando è al di sopra di ogni norma e di ogni legge.

         Il capo mostra la propria infallibilità profetizzando; in questo modo egli può annunciare le proprie intenzioni politiche sotto forma di profezia e, una volta che le ha attuate, mostrare l'esattezza delle sue predizioni.

         è interessante notare che i capi dei due principali regimi totalitari non sono state le persone più potenti del movimento: Hitler era più debole di Röhm, così come Stalin nei confronti di Troskij, erano i secondi ad avere il comando delle forze militari, Röhm era a capo delle S.A. e Troskij reggeva le redini dell'armata rossa e godeva dell'appoggio del popolo. Il capo, nel totalitarismo, deve la propria posizione alla capacità di muoversi negli intrighi, nella capacità di sfruttare a proprio favore ogni particolare, ogni lotta intestina e non all'uso della forza bruta. I dittatori nei regimi assoluti prendono il potere con la forza, i capi totalitari con l'astuzia.

         Nei regimi totalitari ogni individualità personale si dissolve nel complesso del movimento, in questo modo nessuno è responsabile delle proprie azioni, in quanto ognuno agisce nel nome del partito, del capo. Il führer è la legge, egli stabilisce di volta in volta come agire e si carica di ogni responsabilità: "la completa identificazione del capo con ogni subalterno e il monopolio della responsabilità per qualsiasi azione sono i segni più vistosi della profonda differenza esistente fra un capo totalitario e un comune dittatore o despota. Un tiranno non si identificherebbe mai coi suoi subordinati, men che meno con le loro azioni; li userebbe come capri espiatori, facendoli criticare all'occorrenza per salvare se stesso dalla collera popolare".[20] 

         Il capo è l'unico che può spiegare cosa sta accadendo, ha il monopolio della decisione; per questo egli è "insostituibile perché senza i suoi ordini la complicata struttura del movimento perderebbe ogni ragion d'essere e crollerebbe".[21]

         Al di fuori della volontà del capo non ci sono, in una società totalitaria, zone sicure, egli deve apparire come l'unica ancora di salvezza, l'unica autorità rassicurante presente in un mondo confuso e insicuro. "Tutto ciò si spiega solo se si tiene presente che la  leadership carismatica emerge quando è in atto una crisi di straordinaria intensità e vissuta come una catastrofe incombente. Allora il capo è considerato dalla comunità come l'unico uomo capace di indicare la via della salvezza [...]. Pertanto è l'intensità della crisi che produce l'intenso bisogno di una guida carismatica. Ma ciò porta spontaneamente il capo carismatico a rendere permanente lo stato di emergenza per potere continuare ad esercitare gli straordinari poteri [...] e legittimarli di fronte all'opinione pubblica. Di qui il bisogno che lo Stato totalitario ha di alimentare nelle masse la credenza che la società è in uno stato di pericolo";[22] l'unica via d'uscita è quella di affidarsi ciecamente al capo profeta dell'ideologia di salvezza.

 

 

3.3. La propaganda totalitaria.

         La propaganda è un mezzo necessario per il regime totalitario, poiché in primo luogo è solo tramite il suo utilizzo che si può diffondere il messaggio ideologico, e in secondo luogo, si può cercare di legittimare il proprio potere.

         Il regime totalitario appare per la maggior parte della popolazione un regime illegittimo, prodotto da un'usurpazione, il partito si è posto in uno stato di guerra permanente nei confronti del vecchio ordine, lo vuole radere al suolo per istaurarne uno completamente nuovo; di conseguenza tutti coloro che, per diversi motivi, rimangono ancorati alla tradizione devono cambiare opinione, quindi vanno indottrinati.

         Per questo il movimento totalitario si trasforma in una grande agenzia pedagogica; gli attivisti dovranno essere dei persuasori permanenti in modo da suscitare l'impegno e la partecipazione di tutti i cittadini, dovranno criticare aspramente l'ordine precedente mettendone continuamente in luce i difetti, dovranno difendere ed esaltare i valori e i fini della rivoluzione.

         Le masse vanno rieducate, è necessario che le menti degli uomini siano ripulite dalle vecchie idee e siano completamente libere e pronte ad accettare il messaggio totalitario; l'indottrinamento serve a creare un uomo nuovo, sradicato dalla vecchia cultura, dalle vecchie abitudini e dalla vecchia politica.

         Ogni mezzo è lecito per far convertire tutti gli uomini, per i più resistenti sarà utilizzato il lavaggio del cervello, tramite il quale si disintegra "la sua personalità fino a farla aggrappare, come a un'unica tavola di salvezza, alla fede che gli si vuole inculcare".[23]

         Le giovani generazioni vanno indottrinate, è più semplice avvicinarle all'ideologia rivoluzionaria; fin dalla più tenera età queste vengono inquadrate in associazioni del partito, a scuola e nella vita incontrano solo messaggi favorevoli al regime totalitario, vengono fatti crescere a pane e menzogne totalitarie.

         La propaganda totalitaria, per ottenere i suoi scopi, deve eliminare ogni contro messaggio, ogni singola voce che sostenga verità differenti da quelle accettate come tali dal regime non deve avere possibilità di espressione. Solo così il regime stalinista poteva sostenere, per esempio, che la metropolitana di Mosca fosse l'unica al mondo.

         Il punto di forza della propaganda totalitaria è quello di essere riuscita a perfezionare e a  sfruttare i temi già preparati dallo scientismo del positivismo (tutti i fatti sono prevedibili scientificamente), dalla disintegrazione dello stato nazionale, dalla comparsa delle masse nella scena politica. Essi seppero utilizzare ogni mezzo tecnico esistente per i loro scopi: la radio, il cinema, i giornali, i manifesti pubblicitari, gli eventi sportivi.

         "Prima di conquistare il potere [...] i movimenti totalitari evocano un mondo menzognero di coerenza che meglio della realtà risponde ai bisogni della mente umana".[24] Le masse, che non accettano la casualità degli avvenimenti, che non credono alla realtà che si presenta ai loro sensi, perché appare illogica e senza senso, e che devono dare una spiegazione coerente a tutto ciò che accade, si ritrovano in questa propaganda e così si allontanano sempre più dal mondo reale abbracciando la fede totalitaria.

 

 

3.4. La polizia segreta.

         Il ruolo della polizia segreta è d'importanza fondamentale per il regime totalitario; essa, infatti, detiene il potere esecutivo e, in particolare, "gestisce il processo di purificazione permanente"[25]  dell'intera società. La polizia segreta ha il compito di sorvegliare tutti, persino i membri del partito: "la categoria dei sospetti abbraccia l'intera popolazione [...]. A causa della loro capacità di pensare gli uomini sono sospetti per definizione, e l'ombra non può essere dissipata da un contegno esemplare, perché la capacità umana di pensare implica altresì la capacità di cambiare opinione".[26]

         Il terrore di massa, tipico dei regimi totalitari, nasce da quest'opera di purificazione, tramite la quale il popolo è continuamente sottoposto a controlli capillari, molti cittadini cadono nella rete dei processi, alcuni scompaiono senza lasciare il minimo segno della propria esistenza, altri vengono internati nei campi di concentramento. Il terrore "ha anche una funzione pedagogica, poiché, colpendo spietatamente i pochi, si corregge il modo di pensare e di sentire dei molti. [...] É una pratica 'esemplare': è un ammonimento rivolto a tutti - anche, e forse soprattutto, ai militanti - affinché essi non riducano il loro attivismo e la loro dedizione".[27]

         L'opera di pulizia sociale si sviluppa in tre fasi: in un primo momento il regime elimina i veri oppositori, nella seconda fase viene combattuto spietatamente il "nemico oggettivo" (= gli ebrei, i trotzkisti, i polacchi, etc.) ed infine - nell'ultima fase - le eliminazioni sono del tutto casuali.

         L'eliminazione fisica dei veri oppositori è una caratteristica presente in tutti i regimi dispotici, le altre due fasi dell'epurazione sono tipiche dei movimenti totalitari.

         L'esistenza di un nemico oggettivo è uno dei fondamenti sui quali si basa il totalitarismo; questo nemico è "un portatore di tendenze negative," che "corrompe la società"[28] e di conseguenza va eliminato: è necessario scandagliare l'intero corpo sociale per identificare ogni germe del male, isolarlo e rimuoverlo per evitare il contagio.

         I cittadini non vengono arrestati dalla polizia segreta perché sospettati di commettere reati, molto spesso vengono incriminati di "delitto possibile": "la presunzione centrale del totalitarismo secondo cui tutto è possibile conduce così, attraverso la sistematica eliminazione di ogni controllo fattuale, all'assurda e terribile conseguenza che qualsiasi delitto costituito per via di ragionamento deve essere punito, a prescindere dal fatto che sia  stato o no realmente commesso".[29]

         Il capo totalitario, grazie a quest'assunzione, può decidere a tavolino l'eliminazione di larghi strati della popolazione, può rivoluzionare continuamente i vertici del partito e dello stato; i servizi segreti, infatti, eseguono le epurazioni solo dopo un esplicito comando dell'autorità politica.

         "Nell'ultima fase [...] del sistema vengono abbandonati i concetti di nemico oggettivo e di delitto logicamente possibile: le vittime vengono scelte completamente a caso e, senza alcuna accusa, dichiarate indegne di vivere".[30] A questo punto ogni libertà personale viene cancellata, il cittadino è ucciso senza condanna: la sua unica colpa è quella di vivere, di respirare. Secondo il regime totalitario il mondo è abitato da un alto numero di persone "indesiderabili", inutili che devono sparire senza lasciar traccia dalla faccia della terra.

         La polizia segreta è l'organismo che ha il potere di compiere tutte queste operazioni, è il controllore della società, l'agenzia che analizza continuamente la purezza di tutti i cittadini, elimina "chirurgicamente" il nemico e altera il passato; infatti nei regimi totalitari non si muore, ci si dilegua nel nulla. Il regime, quando possiede il comando di tutti i mezzi di comunicazione e di tutte le agenzie scientifiche, può persino alterare a proprio favore gli eventi storici. Il passato deve mostrare che lo scomparso - persino un ex attivista o un personaggio di primo piano del movimento - sia sempre stato ostile all'affermarsi dell'ordine nuovo.[31]

         L'organizzazione della polizia segreta è estremamente complessa: le sue ramificazioni devono coprire ogni aspetto della vita del paese; inoltre gli stessi agenti dovranno essere controllati da altri poliziotti, dipendenti da agenzie diverse di spionaggio, e spesso anche inconsapevoli di dover verificare la fedeltà dei colleghi, oltre che quella dei semplici cittadini.

         Il potere della polizia segreta in uno stato totalitario è enorme, il suo capo supremo è, dopo il leader, l'uomo più influente di tutto il regime; ma l'attività dei corpi di spionaggio è soprattutto quella di eseguire gli ordini e far sparire i nemici del regime: "la polizia totalitaria non ha il compito di scoprire gli autori di delitti, ma quello di essere pronta quando il governo decide di arrestare una certa categoria della popolazione".[32]

         La funzione politica dei servizi di spionaggio è importantissima, essendo ciò che permette al capo del regime di avere un effettivo potere diretto nei confronti dell'intera popolazione; "mediante la rete di agenti segreti il dittatore totalitario dispone di una 'cinghia di trasmissione' direttamente esecutiva, [...] separata e isolata dalle altre istituzioni. In tal senso, gli agenti della polizia segreta formano l'unico strato dominante nei paesi totalitari; tanto che i loro princìpi e la loro scala di valori permeano l'intero tessuto della società".[33]

 

 

3.5. L'apparato statale.

         In un regime totalitario l'apparato statale diventa una gigantesca macchina burocratica: non appena il movimento arriva al potere tutti i ruoli di comando della nazione, i ministeri, le segreterie vengono raddoppiati con istituzioni con uguali poteri nati e cresciuti all'interno del partito, di conseguenza il numero dei funzionari si moltiplica a dismisura.

         La burocrazia è il fulcro sul quale ogni cosa si deve muovere, la società diviene fortemente rigida e accentrata: ogni libera iniziativa viene eliminata, tutto deve essere deciso dal movimento. "Ne risulta una società 'ordinata', vale a dire una società rigidamente gerarchizzata, simile a un gigantesco ministero o a una caserma di proporzioni macroscopiche. Ma forse l'immagine che serve meglio di tutte a rappresentare [...] la società totalitaria è quella del convento militarizzato: un convento, perché in essa tutti gli individui devono dimostrare di essere dei credenti; militarizzato, poiché ogni membro della comunità è concepito come un soldato della guerra rivoluzionaria".[34]

         L'apparato statale è riuscito solo nell'Unione Sovietica (grazie alla matrice ideologica socialista) ad assicurarsi il monopolio di tutti i mezzi che regolano la vita sociale: quelli di coercizione, di persuasione e di produzione.

         Il regime fascista e quello nazista riuscirono comunque ad assicurarsi il controllo dell'economia sfruttando a loro vantaggio l'iniziale appoggio che gli esponenti del capitalismo offrirono ai loro movimenti.

         Una volta che il potere economico è in mano a quello politico la situazione per la popolazione diviene insostenibile: infatti si passa da una situazione libera, con un regime di concorrenza, ad un potere dal quale non si può sfuggire: "il  potere economico esercitato in un regime di concorrenza non può mai essere un potere esclusivo e completo; esso di fatto è contrastato da numerosi contro-poteri, quali i sindacati, i partiti, i mass-media e la stessa opinione pubblica. [...] Per contro, in un sistema totalitario in cui sia stata istituita l'economia di comando la società civile è schiavizzata, esattamente nella misura in cui lo Stato è l'unico ed esclusivo proprietario dei mezzi di produzione".[35]

 

 

3.6. I campi di concentramento.

          I campi di concentramento sono l'aspetto più angosciante e terribile di ogni regime totalitario: le immagini girate dai militari americani, quelle girate dai nazisti, i racconti degli ex-internati ci descrivono delle situazioni da incubo, al limite della credibilità. In questi centri si sono consumate tutte le più atroci violenze mai commesse nei confronti del genere umano: nei campi di concentramento la violenza bruta, il sadismo, la follia omicida (delitti comunque commessi) sono stati superati.

         La pretesa fondamentale del totalitarismo di dominare tutti gli uomini, organizzandoli "nella loro infinità pluralità e diversità come se tutti insieme costituissero un unico individuo, è possibile soltanto se ogni persona viene ridotta a un'immutabile identità di reazioni",[36] l'uomo deve trasformarsi in un automa, senza pensiero, che risponde agli stimoli (in questo caso gli ordini del dittatore totalitario).

         I campi di concentramento sono dei giganteschi laboratori per la creazione di quest'uomo, il cittadino perfetto del regime totalitario, il loro scopo è "di fabbricare qualcosa che non esiste, cioè un tipo umani simile agli animali, la cui unica 'libertà' consisterebbe nel 'preservare la specie' ".[37]

         La piena e vera realizzazione della rivoluzione totalitaria è quella che si realizza nei Lager, che sono l'istituzione centrale del potere totalitario, dove migliaia di uomini perdono la propria identità, la propria forza psicologica, smarriscono persino il senso dell'io. Le atrocità e le continue umiliazioni che gli internati sono costretti a subire li portano a diventare "sinistre marionette con volti umani"[38] che reagiscono istintivamente agli stimoli, non discutono più, non hanno spontaneità, hanno perso tutte le caratteristiche dell'essere umano.

         "L'esperienza dei campi di concentramento dimostra che gli uomini possono essere trasformati in esemplari dell'animale umano, e che la 'natura' è 'umana' soltanto nella misura in cui si schiude all'uomo la possibilità di diventare qualcosa di estremamente innaturale, cioè un uomo".[39]

          Molto spesso gli internati non avevano commesso alcun delitto, non facevano neppure parte delle categorie di "nemici oggettivi" del regime; venivano deportati e costretti a scomparire dalla faccia della terra senza alcuna motivazione plausibile: nell'Unione Sovietica vennero portate nei campi di concentramento intere popolazioni.

         L'internato viene sradicato da tutte le sue abitudini di vita, spogliato della propria dignità e personalità e si trova in "una condizione in cui vengono impedite con altrettanta efficacia sia la morte che la vita",[40] tutto quello che lo riguarda si cancella: anche il suo ricordo, nelle menti dei parenti e degli amici, deve scomparire nel momento in cui viene portato nel lager.

         Le immagini terribili prodotte in ogni tempo delle pene infernali si sono materializzate in tutta la loro crudele e disperata realtà nei campi di concentramento, ma il giudizio universale divino colpisce solo i colpevoli, quello totalitario colpisce tutti senza alcuna distinzione.


 

 

4. IL RUOLO DELLA MENZOGNA NEL TOTALITARISMO

 

         Il regime totalitario è fondato sulla menzogna, sull'inganno; i leader totalitari sono saliti al potere promettendo di sistemare la situazione politica della nazione: le loro intenzioni, invece, erano ben diverse. Essi intendevano creare uno stato d'instabilità permanente nel quale avrebbero sempre potuto godere di poteri illimitati.

         I regimi totalitari hanno sempre sostenuto che la sola verità era quella ufficiale,[41] i fatti accaduti erano solo quelli raccontati dal governo. "Nelle loro pubblicazioni (anche in quelle così dette scientifiche), nei loro discorsi e, naturalmente, nella loro propaganda, i rappresentanti dei regimi totalitari si occupano molto poco della verità oggettiva. Più forti di Dio onnipotente, essi trasformano a modo loro il presente, ed anche il passato".[42]

         La menzogna è un'arma, serve per difendersi, per nascondere le proprie intenzioni ai nemici; essa "non è raccomandata nelle relazioni pacifiche"[43] ma è utilissima nelle situazioni di lotta, nella guerra. I dittatori totalitari hanno usato sapientemente quest'arma, hanno costantemente ingannato i cittadini e i governanti degli altri stati: "l'uomo totalitario [...] trasuda menzogna, la respira le è sottomesso in ogni istante della sua vita".[44]

         Nel mondo totalitario lo stato di guerra è costante, gli adepti del partito si sentono sempre circondati dai nemici, per questo si comportano come i membri delle società segrete: devono mantenere nascoste le loro vere intenzioni in modo da poter compiere la propria missione. I partiti totalitari divengono così delle cospirazioni in piena luce, che per potersi mantenere devono costantemente ricorrere alla menzogna.

         Ogni parola detta dal capo era un inganno, anche quando egli comunicava al mondo intero le sue vere intenzioni - Hitler le aveva persino  pubblicate - sapeva di poterlo fare perché "dicendo la verità era sicuro d'ingannare ed eludere la vigilanza dei suoi stessi avversari".[45] Le intenzioni dei regimi totalitari sembravano assurde ed irrealizzabili, il mondo democratico non vi dava peso perché le interpretava come le parole di un povero pazzo.

         Per l'ideologia totalitaria l'inganno era possibile perché secondo loro la ragione non era una facoltà posseduta da tutti gli uomini, ma solo da alcuni - gli appartenenti alla razza o i teorici della lotta di classe - che, di conseguenza, hanno la possibilità di pensare e di agire con la propria testa; gli altri dispongono solo della parola, il linguaggio ma non la ragione, per questo essi bevono ogni cosa venga loro raccontata: "la massa [...] non sa pensare, né volere. non sa che obbedire e credere. Essa crede a tutto ciò che le si dice. Purché glielo si dica con insistenza, purché si lusinghino le sue passioni, i suoi odi, le sue paure. [...] Più si mente grossolanamente [...] meglio si sarà creduti e seguiti".[46]

         Gli uomini nell'universo totalitario si dividono in due grandi categorie: gli appartenenti alle élite del movimento, i veri uomini che devono imporsi in tutto il mondo e comandare,  e tutti gli altri, i quali, non avendo la capacità di pensare, devono solo obbedire, devono trasformarsi in automi che agiscono - anche contro la propria sopravvivenza - solo dopo un comando dato dal movimento totalitario.

         "Gli iniziati [...] per una specie di sapere intuitivo e diretto - conoscono il pensiero intimo e profondo del capo, i fini segreti e reali del movimento. Così non sono per nulla turbati dalle contraddizioni e inconsistenze delle sue asserzioni pubbliche: sanno che hanno per obbiettivo di indurre in errore le masse, gli avversari, gli 'altri' e ammirano il capo che maneggia e pratica così bene la menzogna".[47]

         Nel regime totalitario la verità diviene menzogna, e la menzogna è verità.


 

 

5. LA STORIA

 

 

5.1. Lo stalinismo.[48]

         Stalin prese il potere nell'URSS dopo la morte di Lenin (gennaio 1924); per ottenere la carica dovette fronteggiare la rivalità di Troskij, il quale sosteneva la necessità di diffondere la rivoluzione in tutto il mondo per distruggere il capitalismo, convinto che il socialismo sovietico isolato non potesse essere autosufficiente. Stalin fece prevalere la propria linea politica, il "socialismo in un solo paese", e costrinse l'avversario all'esilio.

         Una volta liquidate le opposizioni di Troskij e di Bucharin, Stalin poté applicare la propria politica economica (abbandonando l'apertura liberale, promossa da Lenin con la N.E.P.) fortemente collettivizzata e completamente nelle mani dello stato. Egli era convinto che per promuovere il socialismo in un solo paese fossero necessari lo sviluppo massiccio dell'industria e l'eliminazione completa della classe dei contadini possidenti (Kulaki).

         Promosse quindi diversi piani quinquennali nei quali programmò lo sviluppo nei minimi particolari; questi piani dal punto di vista industriale furono un successo, poiché, in un momento di grave crisi economica mondiale, l'Unione Sovietica divenne una delle maggiori potenze industriali.

         La politica agricola invece fu un disastro: i kulaki furono completamente eliminati (uccisi o deportati), ma le fattorie collettive non furono produttive e soprattutto non riuscirono a pareggiare le perdite subite dalle campagne (in termini di produzione e numero di capi) nel periodo dello scontro con i contadini possidenti.

         Stalin trasformò anche il partito: le cariche furono stabilite dall'alto della gerarchia, ogni fermento di democrazia socialista venne represso duramente, il risultato fu un sistema dittatoriale fondato sul potere personale di Stalin.

         L'intero Paese fu sconvolto, dal 1935 al 1938, da continue ondate di purghe, nelle quali vennero posti sotto accusa, incarcerati, deportati ed uccisi tutti gli avversari politici, ufficiali dell'esercito rosso, semplici cittadini. I metodi polizieschi erano volti all'eliminazione di ogni dissenso e molto spesso i condannati erano costretti ad autoaccusarsi con confessioni prefabbricate o estorte dalla stessa polizia: processi e condanne a morte senza la minima parvenza di legalità furono sempre all'ordine del giorno nel regime staliniano e almeno otto milioni[49] di persone furono internate in campi di lavoro coatti (erano così chiamati i campi di concentramento).

         Secondo Moshe Lewin sono tre i fattori che "sembrano aver giocato un ruolo determinante nella nascita del fenomeno stalinista [...]: 1) lo scardinamento delle strutture sociali e la fluidità creata dalla spinta industrializzazione e dai metodi con cui fu portata avanti; 2) le caratteristiche della nuova e proliferante burocrazia, un ceto allora assai instancabile e privo di una precisa coscienza di sé; 3) le tradizioni storiche e culturali del paese, in particolare quelle rappresentate dai contadini. Questi tre fattori, sotto l'impulso di uno sviluppo industriale frettoloso quanto frenetico, cominciarono a spingere nella medesima direzione, e cioè verso l'esaltazione della potenza dello stato, che si trasformò in seguito in quella vera e propria statolatria che doveva essere una delle caratteristiche basilari del nuovo sistema.  Il diffuso senso d'insicurezza provato dagli apparati, che non risparmiava i loro livelli superiori, spinse molti dei loro rappresentanti a cercare un sostegno nei pretesi simboli di stabilità del sistema, il segretario generale e il suo 'culto' e quindi farsene paladini".[50]

 

 

I FATTI

1924

24 gennaio         Morte di Lenin

1925  Al congresso viene proposta da Stalin la pianificazione dell'industria, si levano diverse voci di dissenso tra cui quella di Bucharin.

1927  Troskij e i suoi sostenitori vengono espulsi dal partito comunista.

1928  Viene messo in atto il primo piano quinquennale per lo sviluppo dell'industria e la collettivizzazione dell'agricoltura.

1929  I kulaki avversano la collettivizzazione agricola e la sabotano uccidendo migliaia di animali e distruggendo le colture.

         Bucharin viene espulso dal partito.

1930  Inizia l'eliminazione radicale della classe dei kulaki.

1934  Viene assassinato Kirov, presidente del Soviet di Leningrado: il terrore staliniano colpisce anche i membri del partito.

1936         Zinov'ev e Kamenev, dopo un processo-farsa, vengono condannati a morte.

1938  Viene processato e fucilato Bucharin.

1940  Un agente sovietico uccide Troskij in Messico.

 

 

5.2. Il fascismo al potere in Italia.

         Il movimento dei Fasci di combattimento nasce a Milano il 13 marzo 1919; il processo che porta alla dittatura di Mussolini comincia l'anno dopo, in seguito all'accordo tra Giolitti e Mussolini per la soluzione della questione di Fiume,[51] che permette al leader dei fascisti di "iniziare a portare avanti una duplice azione mirante sia ad inserire il movimento fascista nel blocco antisocialista [...], sia a scatenare [...] la reazione squadristica contro il partito socialista, contro le organizzazioni operaie e contadine guidate dai socialisti e poi anche contro quelle guidate dai popolari".[52]

         Nel corso del 1920 il fascismo si trasforma da movimento urbano in un grande movimento agrario dotato di un'enorme forza esplosiva: è la piccola e grande borghesia agraria (che aveva dovuto cedere alle richieste di miglioramenti contrattuali dei braccianti organizzati nelle leghe e nelle cooperative socialiste e popolari) ad appoggiare sia economicamente che politicamente l'azione del fascismo. Da questo momento in poi le violenze delle squadriglie si moltiplicano, colpiscono - anche preventivamente - ogni organizzazione avversaria. Le azioni non sono represse dallo stato perché la burocrazia, l'esercito, la magistratura e la polizia sono decisamente ostili ai movimenti operai e, come la borghesia agraria, temono lo scoppio di un'insurrezione bolscevica.

         I politici, e in special modo Giolitti, favoriscono l'ascesa del fascismo al potere per un grosso errore di valutazione: pensano di poter utilizzare questo movimento di destra per combattere ed arginare il partito socialista e le sue richieste: "Giolitti credette di poter ripetere col fascismo ciò che gli era riuscito in parte nel primo quindicennio del secolo con i socialisti: spezzarne lo slancio rivoluzionario. [...] Il fascismo è misurato e valutato secondo gli antiquati criteri di giudizio dei partiti e delle forze politiche del passato. [...] Nel 1921-22, dunque, chi valuta il fascismo in base alle vecchie formule della lotta politica e parlamentare, può ancora credere alla possibilità di blandirlo, di servirsene, di affidargli la parte d'aiutante, salvo sbarazzarsene in seguito. Ma proprio qui sta il fondamentale errore di valutazione. Il fascismo non è una forza politica vecchio stile. i suoi principî - ammesso che ne abbia - non hanno nulla in comune con quelli che fino ad allora avevano regolato il giuoco politico. La legalità degli atti non lo preoccupa; la libertà, la salvaguardia del Parlamento, tutti i vecchi principî dello stato liberale gli sono estranei".[53] In seguito i politici liberali si accorgeranno del grosso errore di valutazione che avevano commesso; lo stesso Giolitti, nelle discussioni parlamentari, si pronuncerà contro il fascismo, ma ormai, sarà troppo tardi: il movimento si è trasformato in partito, è entrato in parlamento e, in seguito alla cosiddetta "marcia su Roma",[54] Mussolini è già divenuto capo del governo.

         Dall'ottobre del 1922 tutte le azioni politiche di Mussolini sono volte all'istaurazione di un regime totalitario: viene promulgata una nuova legge elettorale nel 1923 di tipo maggioritario;[55] e dopo il delitto Matteotti (10 giugno 1924) si apre il periodo che Chabod chiama "la dittatura vera e propria": "il 3 gennaio 1925, Mussolini tiene alla camera il discorso [...] in cui dichiara fra l'altro [...]: 'assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto'. [...] Tutto il potere passa al fascismo. Si giunge alle leggi 'fascistissime', cioè alla dittatura che ormai non teme più di esporsi sul piano formale".[56] Da questo momento in poi il parlamento viene esautorato da ogni sua funzione: "l'articolo 6 della legge è molto chiaro: non si potrà porre nessuna questione all'ordine del giorno del Parlamento senza previa autorizzazione del capo del governo. É la fine della discussione parlamentare come necessario fondamento della vita d'un governo. Ogni dibattito politico può essere così evitato".[57]

         In seguito viene abolita la libertà di stampa, i vecchi partiti sciolti; nasce un tribunale per la difesa dello stato, "che dovrà giudicare i cosiddetti reati politici. É un tribunale che funzionerà con molta durezza. Le condanne anche nei casi meno gravi colpiscono pesantemente coloro che vengono accusati di complotto contro la sovranità dello Stato, cioè gli antifascisti".[58]

         Il 13 gennaio 1923 è istituita la "milizia volontaria per la sicurezza nazionale", corpo paramilitare vengono inseriti gli uomini delle squadre d'azione del periodo pregovernativo; le camicie nere, nonostante il giuramento di fedeltà al re, sono sempre agli ordini di Mussolini. "Siamo così di fronte ad uno degli elementi più caratteristici della differenza fra le dittature del XX secolo e quelle del XIX; non si dimentichi, infatti, che la stessa cosa accadrà in Germania, dove, accanto alla Wehrmacht, sorgeranno le SS. Le leggi restrittive della libertà di stampa non sono una novità. Neppure la condanna all'esilio dei propri avversari politici rappresenta una novità. La vera novità è costituita dal fatto che, mentre le dittature del XIX secolo facevano appello all'esercito regolare e compivano il 'colpo di Stato' con il suo appoggio, quelle del XX secolo, fascista o nazista, si impadroniscono del potere grazie ad una propria organizzazione militare, specialmente approntata e destinata a conservarsi accanto all'esercito regolare".[59]

         Mussolini, così come Hitler, si serve di tutti i mezzi a sua disposizione per ottenere il consenso degli italiani: una martellante campagna di stampa e cinematografica porta alla diseducazione politica del popolo italiano, in modo che tutti divengano favorevoli al regime e pronti ad obbedire ciecamente ad ogni ordine.

         Non bisogna dimenticare la firma dei "Patti lateranensi" (11 febbraio 1929): con questo accordo stipulato con la Santa Sede Mussolini si assicura i favori della gran parte dei cattolici italiani.

 

 

I FATTI

1919

23 marzo         Mussolini fonda i Fasci di combattimento

15 aprile         Le squadriglie fasciste compiono la prima "impresa": danno fuoco alla sede milanese del quotidiano socialista Avanti!.

12 settembre         D'Annunzio con un gruppo di ex-combattenti occupa la città di Fiume.

1920

12 novembre         Giolitti firma il trattato di Rapallo, viene risolta politicamente la questione dell'Istria, della Dalmazia e della città di Fiume.

                  D'Annunzio e i suoi uomini non abbandonano la città.

24 dicembre         L'esercito italiano interviene a Fiume per allontanare i legionari dannunziani.

1921

15 maggio          Le elezioni politiche ottengono come risultato un notevole spostamento a destra e l'elezione di alcuni deputati fascisti, iscritti nelle liste dei "blocchi nazionali".

                        Si moltiplicano le violenze delle squadriglie fasciste.

3 agosto         Mussolini e i socialisti firmano un "patto di pacificazione", che non viene accettato dai fasci rurali che continuano le azioni violente.

novembre         Il movimento si trasforma in partito fascista (PFN)

1922

maggio         Le violenze squadriste s'intensificano in special modo nell'Emilia Romagna.

31 luglio         Lo sciopero generale di protesta contro le violenze fasciste proclamato dai partiti della sinistra fallisce a causa degli incidenti provocati dalle camicie nere.

28 ottobre         Marcia su Roma, il re non firma lo stato d'assedio.

29 ottobre         Il re invita telegraficamente Mussolini alla guida del governo.

1923

14 gennaio         Nasce la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, nella quale si arruolano molti squadristi.

18 novembre         Viene approvata la nuova legge elettorale maggioritaria.

1924

6 Aprile         Alle elezioni politiche generali la lista fascista ottiene il 64% dei voti.

30 maggio         Matteotti, segretario del PSU, denuncia alla Camera le violenze e le illegalità compiute dai fascisti durante la          campagna elettorale e nel corso delle consultazioni.

10 giugno         Matteotti viene rapito ed assassinato dalle camicie nere. Le opposizioni si astengono dai lavori della Camera (Aventino) affinché il re dimetta Mussolini.

luglio            Vengono promulgate le leggi contro la libertà di stampa.

1925

3 gennaio         Mussolini rivendica la responsabilità del delitto Matteotti.

20 luglio         Nuove violenze fasciste: viene gravemente percosso Giovanni Amendola.

2 ottobre         I sindacati fascisti vengono riconosciuti come gli unici rappresentanti dei lavoratori.

24 dicembre         Le "leggi fascistissime" modificano lo Statuto Albertino: è la fine dello stato liberale.

1926

                novembre Vengono soppressi i giornali non fascisti, sciolti i partiti e annullati tutti i passaporti.

1929

11 febbraio         I Patti Lateranensi sanciscono l'accordo tra il Vaticano e lo Stato Italiano.

1932

                17 dicembre Per partecipare ai concorsi pubblici è richiesta l'iscrizione al partito fascista.

1934

giugno          L'Albania firma un accordo con l'Italia, dopo pressioni militari, per una collaborazione economica e militare.

1935

3 ottobre         Inizia l'invasione dell'Etiopia.

                  18 novembre La Società delle nazioni applica sanzioni economiche nei confronti dell'Italia. Inizia il periodo dell'autarchia.

1936

23 ottobre         Hitler e Mussolini firmano un'accordo.

1938

3 agosto         Le leggi razziali, ispirate a quelle naziste, entrano in vigore ed inizia la persecuzione contro gli Ebrei.

1939

22 maggio         Viene firmato il "patto d'acciaio" che sancisce l'alleanza militare tra Germania e Italia.

1940

10 giugno         L'Italia entra in guerra.

 

 

5.3. Dalla repubblica di Weimar alla dittatura nazista.

         La repubblica di Weimar nacque senza avere le forze necessarie per affrontare la terribile crisi che stava colpendo la società tedesca dopo la fine della prima guerra mondiale.

         La difficile situazione era creata da molteplici cause, tra cui il problema delle ingenti somme da versare ai vincitori come riparazioni di guerra; l'economia tedesca non riuscì a reggere il peso delle richieste degli alleati cosicché si provocò un processo d'inflazione che ridusse enormemente il valore del marco, tagliò drasticamente il potere d'acquisto dei salari gettando la classe operaia e quella medio-artigianale nella miseria e nella disoccupazione. “All’inizio di ottobre 1923 un litro di latte costa 5,4 milioni di marchi; l’affrancatura di una lettera ammonta a 2 milioni di marchi. Alla fine di novembre il litro di latte costa già 360 miliardi di marchi [...]. Salari e stipendi vengono pagati settimanalmente; nel giorno di paga ecco i destinatari presentarsi agli uffici pagatori con le ceste da bucato, per correre poi a fare acquisti di generi alimentari o di vestiario prima che sopravvenga un’altra ondata inflazionistica a togliere valore al denaro ricevuto”.[60] Gli unici che seppero avvantaggiarsi in queste contingenze furono gli speculatori e i grandi industriali che riuscirono ad arricchirsi giocando in borsa.

         Da un punto di vista politico la repubblica era minacciata sia da sinistra che da destra. Le forze comuniste, guidate dalla Lega di Spartaco, erano decise a trasformare il paese in una repubblica di tipo sovietico; i loro capi, tra cui Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, intendevano instaurare un vero regime comunista: infatti avevano notato le devianze dalla teoria marxista che erano avvenute in Russia ed erano decisi ad evitarle.

         L'esasperazione della situazione economica delle classi lavoratrici portò all'insurrezione armata, scoppiata a Berlino nel gennaio 1919, che fu sedata nel sangue. Il governo chiese aiuto all'esercito, ma lasciò che i corpi franchi (= organizzazioni paramilitari a carattere nazionalistico composte da reduci della guerra che non riuscirono a reinserirsi della società) agissero indisturbati compiendo numerosi assassinii politici, tra i quali bisogna ricordare quello della Luxemburg e di Liebknecht.

         Le classi agiate invece avversavano fortemente la repubblica cercando in ogni modo d'impedire il consolidarsi delle istituzioni democratiche, esse vedevano nel nuovo ordine statale la possibilità di perdere potere.

         L'ascesa di Hitler e del partito nazionalsocialista fu possibile solo grazie all'appoggio di questa classe, furono gli industriali tedeschi che premettero affinché Hitler divenisse cancelliere della repubblica di Weimar.       

         La crisi conseguente al crollo della borsa di Wall Street (1929) aggravò ulteriormente la disastrosa situazione economica tedesca e la destra conservatrice vide in Hitler colui che, instaurando un nuovo regime autoritario, potesse difendere i loro interessi eliminando una volta per tutte ogni forma di protesta sociale e sindacale. La destra pensò di poter guidare il leader del nazionalsocialismo, strumentalizzandolo affinché restaurasse l'ordine precedente; ma commise un grosso errore di valutazione; infatti fu Hitler che si servì del loro appoggio per instaurare un dominio personale dispotico.

         Hitler si era assicurato le simpatie di tutti i nazionalisti tedeschi, egli, dopo il fallito tentativo del Putsch di Monaco, aveva rivisto la propria linea politica e, abbandonando i tentativi rivoluzionari, si era innalzato al ruolo di paladino, difensore del popolo tedesco ed aveva messo alla base del proprio programma il mito della superiorità della razza ariana; così facendo riuscì ad accattivarsi le simpatie dei tedeschi che si sentivano offesi e disonorati dalle clausole del Trattato di Versailles.

         Una volta nominato cancelliere, Hitler seppe utilizzare a proprio favore il potere e dopo l'incendio del Reichstag (la sede del parlamento), di cui furono accusati i comunisti ma che in realtà fu appiccato dai suoi uomini, proclamò lo stato d'emergenza che, secondo lo statuto della repubblica di Weimar, gli permise di sospendere le libertà politiche e civili: potè così eliminare le forze comuniste, e mettere sotto controllo statale la stampa e tutti i partiti politici.

         La dittatura nazista si rafforzò grazie all'uso di alcuni strumenti: il primo fu il terrore poliziesco che invase tutta la Germania; il secondo fu l'azione di propaganda, in quanto il regime seppe utilizzare a proprio favore ogni mezzo (la stampa, la radio, il cinema e l'arte) per diffondere in maniera martellante il proprio credo; il terzo strumento utilizzato dai nazisti per consolidare il proprio potere fu l'inquadramento di tutti i cittadini attivi nelle organizzazioni del partito, soprattutto grazie ad una forte azione pedagogica rivolta alle giovani generazioni.

 

 

I FATTI

1918

                9 novembre Proclamazione della repubblica tedesca in seguito all'abdicazione di Guglielmo II e di tutti i principi.

11 novembre         Capitolazione della Germania.

1919

18 gennaio         Apertura della conferenza di pace a Parigi.

gennaio-maggio         Rivoluzione comunista a Berlino soffocata nel sangue.

                11 agosto Costituzione della Repubblica di Weimar in forma federale; il presidente ha vasti poteri, tra i quali quello di sospendere, in caso di emergenza, le libertà civili.

1920           Hitler espone per la prima volta il proprio programma e trasforma ad aprile il Partito dei lavoratori tedeschi nel "Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori".

1923

                8 novembre Putsch di Monaco; Hitler e Ludendorff cercano di impadronirsi del potere a Monaco. Il governo, con l'appoggio dell'esercito li reprime.

1924

Hitler viene condannato a cinque anni di carcere, la sua prigionia durerà solo un anno nel quale scriverà il Mein Kampf che contiene il suo programma politico.

1929           Grave crisi economica; Hitler sfrutta il malcontento generale

1933

               4 gennaio Hitler si accorda con Von Papen per un governo di coalizione: Hitler viene nominato cancelliere dal presidente Hindeburg .

               28 febbraio Incendio del Reichstag, i nazisti incolpano ingiustamente i comunisti. Vengono di conseguenza varate leggi che limitano la libertà dei cittadini.

23 marzo         Il Reichstag attribuisce i pieni poteri ad Hitler.

7 aprile         Nasce la Gestapo.

giugno          Viene attivato il primo campo di concentramento a Dachau.

1934

               30 giugno Le SS sterminano le SA nella notte dei "lunghi coltelli", così Hitler riesce a stabilire un'unità di vedute nel partito eliminando gli oppositori interni.

2 agosto         Alla morte del presidente Hindenburg Hitler diviene capo assoluto dello stato.

1935

13 gennaio         La Saar torna alla Germania grazie ad un plebiscito.

               15 settembre Hitler mette in atto con le "leggi di Norimberga" le idee antisemite che aveva espresso nel programma del Mein Kampf. Gli ebrei vengono privati dei diritti civili e politici.

1936

7 marzo         I militari tedeschi occupano la Renania.

1938

13 marzo               Un plebiscito annette l'Austria al Terzo Reich.

                        9-10 novembre La "notte dei cristalli" segna la maggiore manovra antisemita prima dell'inizio della seconda guerra mondiale.

 

 

5.4. La dittatura franchista in Spagna.

         In Spagna la pressione delle forze popolari, che richiedono tra l'altro una riforma agraria, spaventa le classi agiate e in special modo il re Alfonso XIII che nel 1923 favorisce la costituzione di un direttorio militare (una dittatura) del generale Miguel Primo De Rivera. La situazione sociale comunque non migliora e il re si sbarazza nel 1930 del dittatore e torna alla legalità costituzionale indicendo delle elezioni: il successo dei partiti repubblicani, alle consultazioni del 1931, costringe il re ad abdicare e ad allontanarsi dalla Spagna.

         Viene proclamata la nuova repubblica che tenta una razionalizzazione e una sistemazione della calda situazione sociale spagnola: viene promossa una socializzazione dei latifondi, i beni della corona sono espropriati, la Chiesa e lo stato vengono separati, le forze armate epurate, espulsi i Gesuiti e laicizzato l'insegnamento. Viene promulgata una riforma che intende trasformare l'aspetto dello stato da accentrato a decentrato, dando potere alle regioni (particolarmente alla Catalogna, alla Galizia e alle minoranze basche).

         Le misure riformatrici sono condotte in maniera disordinata e non risolutrice, per questo larga parte della popolazione continua a sentire l'esigenza di un diverso ordinamento sociale; anche la Chiesa si mostra ostile alla repubblica.

         Nel 1933 José Primo de Rivera (il figlio dell’ex dittatore) fonda, ad imitazione dei fasci di combattimento italiani, un movimento nazionalista e di estrema destra, la Falange Española; nelle elezioni del 1933 le forze di destra tornano al potere.

         La matrice reazionaria del nuovo governo porta alle sollevazione dei minatori, alla promulgazione di molti scioperi e tumulti, che vengono repressi nel sangue dall'esercito guidato dal Generale Francisco Franco.

         La sconfitta subita dalle forze democratiche, porta alla nascita del Fronte popolare delle sinistre, che ottiene alle elezioni del 1936 un grosso successo.

         I disordini non finiscono e dopo l'uccisione del leader parlamentare delle destre Sotelo si scatena la guerra civile; dal Marocco si muove la guarnigione guidata dal generale Franco, innalzatosi a difensore dei valori e della religione. Il presidente Caballero, di fronte all'avanzata di Franco, non fidandosi dell'esercito, distribuisce le armi al popolo.

         La guerra civile si protrae fino al marzo 1939, quando le forze di destra aiutate dai militari italiani e da mezzi (aerei, carri armati, armi) tedeschi, nonostante l'esistenza di un patto internazionale di non intervento, conquistano Madrid. In aiuto dei democratici erano accorsi volontari da tutto il mondo, ma la loro forza e la loro grande convinzione di lottare per il bene dovette scontrarsi contro eserciti ben organizzati e dotati di armi tecnologicamente avanzate.

         La vittoria di Franco porta alla nascita di un altra dittatura di destra in Europa, fondata sull'appoggio della burocrazia, del clero, dell'esercito e dei proprietari terrieri.

 

 

I FATTI

1916           Agitazioni sociali coinvolgono tutto il territorio spagnolo.

1923

                13 settembre Il re favorisce, di fronte alle pressioni popolari che non riesce a controllare, la nascita della dittatura di Miguel Primo de Rivera.

1930

                28 gennaio Primo de Rivera si dimette, costretto dalle opposizioni, e lascia il potere al generale Berenguer.

1931

14 febbraio         Berenguer si dimette.

12 aprile         I deputati repubblicani ottengono un grande successo alle elezioni.

14 aprile         Viene allontanato il re e proclamata la repubblica.

1933

29 ottobre         Nascita della Falange spagnola.

               19 novembre Alle elezioni la coalizione repubblicano-socialista viene duramente sconfitta: tornano al potere le destre.

1934

                31 marzo Viene stretto un patto segreto tra la Falange e Mussolini, che promette aiuti nella lotta contro il regime repubblicano.

1936

16 febbraio         I repubblicani di sinistra vincono le elezioni e formano un nuovo governo.

13 luglio         Viene assassinato il leader di destra Sotelo.

18 luglio         Insurrezioni in Siviglia, Cadice, Granada: inizio della guerra civile.

9 settembre         Gli stati europei fondano un "comitato di non intervento".

29 settembre         Franco viene nominato capo del governo degli insorti.

6 novembre         Assedio di Madrid.

1937

26 aprile         Bombardamento di Guernica (prova delle potenzialità dei mezzi aerei nazisti).

1 luglio         Il governo di Franco ottiene l'appoggio dei vescovi spagnoli (riconosciuto dal Vaticano).

1938

                   24 luglio Inizia la battaglia dell'Ebro, che segnerà la sconfitta definitiva delle forze democratiche coadiuvate dalle brigate internazionali.

1939

26 gennaio         Occupazione di Barcellona.

28 marzo         Conquista di Madrid.

1° aprile         Fine della guerra civile e inizio della dittatura franchista.

 

 

5.5. La diffusione in Europa dei fascismi.

         In Europa nel corso degli anni trenta emergono molteplici movimenti che si rifanno alle dittature fascista e nazista; i motivi che spingono verso questa tendenza politica sono diversi: in primo luogo la Grande Crisi del '29 si fa sentire a livello sia economico che sociale, in secondo luogo gran parte della popolazione - proprio come in Italia - è spaventata dalla possibilità che anche nel proprio paese possa scoppiare una rivoluzione bolscevica che porti ad uno sconvolgimento socio-economico.

         Questi regimi non riescono però ad affermarsi con forza e a tramutarsi in stati totalitari, nella maggior parte dei casi instaurano un governo reazionario di matrice autoritaria: aumentando i poteri della gerarchia militare e dei rappresentanti reali, esautorano il parlamento, senza rivoluzionare il sistema legislativo. L'appoggio a questi movimenti viene dalla piccola e media borghesia, la classe che maggiormente teme l'avanzata del proletariato (soprattutto agricolo) da un punto di vista economico e sociale.

 

 

Regimi autoritari d'ideologia fascista si possono trovare in:

¨         Polonia: nel 1926 il generale Pilsudski compie un colpo di stato ed instaura un regime anticomunista e antisovietico. In questa nazione i proprietari terrieri si sentono minacciati di fronte alla forte avanzata del movimento contadino.

¨         Portogallo: tra il 1928 e il 1933 il professor Salazar impone un governo autoritario accentrando nella sua persona tutti i poteri esecutivi appoggiandosi al clero.

¨         Lituania

¨         Bulgaria

¨         Ungheria: l'ammiraglio Horty, grazie all'appoggio del governo fascista italiano, instaura dal 1927 una dittatura personale

¨         Grecia: le debolezze della monarchia e dei governi di coalizione portano all'ascesa, nel 1936, del generale Metaxas.

¨         Austria: Dolfuss, cancelliere dal 1932, nel tentativo di difendere i propri confini dalle mire naziste, instaura un regime autoritario: congeda il parlamento e ricerca l'appoggio di Mussolini. Viene assassinato nel 1934 da sicari pagati da Hitler.


 

 

6. CONCLUSIONI

 

 

6.1. Contro ogni libertà responsabile.

         Il regime totalitario pretende la completa adesione di tutti i cittadini; un'adesione che va oltre il semplice favore, ogni abitante deve essere a completa disposizione del potere politico, persino la sua vita deve essere sacrificata per il movimento.

         La cieca obbedienza è l'unica virtù che il popolo deve avere, ogni uomo si deve trasformare in una sorta di macchina che risponde ai comandi, un robot, un automa: un essere senza anima e senza nessuna libertà. L'obbedienza deve essere totale, completa, non ci può essere neppure un instante di esitazione prima di eseguire un comando: persino quello che porta alla propria morte.

         Abbiamo visto come quest'obbiettivo del totalitarismo si sia realizzato completamente solo nei campi di concentramento - laboratori di esperimenti che si sarebbero dovuti ripetere in grande su tutta la società - e non si sia diffuso nel Paese.[61]

         La vita nei Paesi totalitari, comunque, è estremamente limitata: il singolo non ha alcuna possibilità di esprimersi nella sua personalità e l'iniziativa privata è considerata dannosa, contraria al regime che vuole inglobare tutto in sé. Ogni istante è regolato, non c'è momento della giornata lasciato alla libera iniziativa: le attività sportive, i giochi e il tempo libero sono anch'essi sotto il diretto controllo del partito-stato.

         Il cittadino non ha possibilità di fare le proprie scelte. Nell'Unione Sovietica e nei Paesi satelliti, per esempio, i giovani venivano prelevati dalle famiglie, portati in centri-collegio dove si dovevano impegnare anima e corpo per realizzare il progetto di vita che lo stato aveva fatto su di loro: atleti, scienziati, musicisti venivano formati in queste scuole con una durissima disciplina nella quali ogni momento era dedicato allo studio o all'allenamento.

         Un'altra caratteristica della vita nei regimi totalitari è il completo isolamento di ogni persona; non ci sono veri contatti personali perché - come abbiamo più volte ricordato - ogni conoscenza, ogni incontro può diventare estremamente pericoloso per la propria sopravvivenza, perciò tutti cercano di limitare al massimo i contatti con il prossimo.

         La vita stessa è continuamente in pericolo perché il singolo non sa mai quale categoria di cittadini il governo vuole colpire (eliminandola, internandola nei campi di concentramento).

         L'unica forma di lavoro possibile in un regime totalitario è quella coatta, in quanto in pratica ogni lavoratore viene obbligato, costretto a fare un determinato lavoro in un determinato luogo, non ha la possibilità di cambiarlo secondo la propria volontà, non può cercarne uno diverso o discuterne il contratto.

         La stampa, il cinema, il teatro ed ogni altra espressione artistica sono -se non un'emanazione diretta del governo - comunque sotto lo stretto controllo del regime; le voci dissidenti vengono represse duramente: i loro autori vengono internati in ospedali psichiatrici o uccisi; i più fortunati sono quelli che riescono a fuggire e a continuare a descrivere le barbarie del regime da un altro Paese.

Ogni forma di libertà viene negata, il cittadino non ha il diritto di fare nulla, neppure respirare, se questo non è concesso dal regime.

 

 

6.2. Una resistenza "continua" nei confronti del totalitarismo.

         I regimi totalitari per gli europei sono solo un ricordo: sono passati più di cinquant'anni dalla fine del Terzo Reich e della dittatura fascista, il muro di Berlino è stato abbattuto nel 1989, l'Unione Sovietica non esiste più. Allora perché dovremmo occuparci ancora del "rischio totalitario"?

          Come abbiamo visto nelle pagine precedenti, vi è una stretta corrispondenza tra le aspirazioni di gran parte della popolazione e le promesse di salvezza, di miglioramento e di coerenza nei fatti proposte dall'ideologia totalitaria; è la mente dell'uomo che di fronte all'inspiegabilità degli accadimenti cerca rifugio in un sistema compatto di certezze che possano chiarire tutti gli aspetti dell'esistenza.

         Nella vita non ci sono certezze, punti fermi assoluti; molto spesso le cose accadono semplicemente perché accadono, di conseguenza dobbiamo aprire la nostra mente alla realtà, guardare con i nostri occhi, ascoltare con le nostre orecchie. L'attenzione rivolta verso tutto ciò che ci circonda, anche verso quello che non ci interessa, può essere fondamentale per mantenere la nostra libertà.

         Per raggiungere questa attenzione continua è fondamentale istruirsi, formarsi in modo da poter veramente pensare con la propria mente e non farsi influenzare dagli altri, o, molto peggio, da un'ideologia che pretende di comprendere in sé tutti gli aspetti dell'universo.

         L'ideologia totalitaria, che il partito rappresenta, divide tutti gli aspetti della realtà in maniera drastica, in modo da farne una caricatura semplificata che può essere compresa da tutti; al contrario nel mondo non esistono solo due colori il bianco (la luce) e il nero (le tenebre, il male), ma infinite sfumature di colori. Ogni visione manichea di ciò che ci circonda porta all'intolleranza e al non accettare la varietà della vita.

         Per questo ognuno di noi deve poter manifestare la propria personalità con il pensiero, con l'arte affinché il mondo venga invaso da milioni di colori, appartenga a persone che vivono la vita e non hanno paura di fare le proprie scelte - anche e soprattutto nell'ambito politico - delegando altri ad esprimersi per noi.

         La partecipazione continua alla vita della nostra città, della nostra nazione e del mondo è l'unico antidoto che ognuno di noi possiede contro tutte le forme di dispotismo.

         Noi ora conosciamo tutte le brutalità dell' "esperimento totalitario" di dominio assoluto dell'uomo e del mondo; sappiamo come scrive Hannah Harendt che “improvvisamente si scopre che quanto per millenni la fantasia aveva relegato in un regno al di là della competenza umana può esser realmente prodotto qui sulla terra, che l'inferno e il purgatorio, e persino un riflesso della loro durata eterna, possono essere instaurati coi più moderni metodi di distruzione e terapia”.[62]

         Non dobbiamo pensare che una volta scomparsi Hitler, Mussolini, Stalin o Franco l'emergenza totalitaria sia conclusa una volta per tutte: l'uomo ha sempre aspirato ad ottenere un dominio totale su ogni altro essere umano.

         Al giorno d'oggi si possono vedere rischi totalitari nel sistema economico-lavorativo: quando l'azienda pretende che il lavoratore sia tutto per sé, quando le richieste di fare ore di straordinario sono continue e quotidianamente l'orario di lavoro si dilata fino a dieci o più ore (in un momento in cui la disoccupazione sta crescendo in maniera esponenziale) o quando la proprietà obbliga per contratto a trasferimenti lunghi ed anche economicamente svantaggiosi per il lavoratore, quando le fabbriche vengono chiuse solo perché farne delle nuove in altre zone porta danaro (incentivi pubblici) nelle tasche dell'imprenditore.

         Ogni volta che qualcuno ci vuole imporre una scelta (attraverso i media o nei rapporti quotidiani) dobbiamo accendere il cervello e ben valutarla per non cadere nella spirale dell'obbedienza cieca, anticamera del totalitarismo.

         La nostra libertà è soprattutto quella di poter decidere come comportarci e il limite di essa è la libertà del nostro prossimo; il rispetto e la tolleranza verso le scelte dell'altro. Noi stessi non dobbiamo pretendere di decidere qualcosa per gli altri, e se non siamo d'accordo con alcune scelte l'unico modo per valutarne la validità è il confronto, il dialogo con l'altro in modo che entrambi possiamo esprimere il nostro punto di vista, e comprendere quello dell'interlocutore.

         L'espressione delle nostre opinioni, il dialogo, il confronto tra posizioni differenti e la libera scelta sono le caratteristiche fondamentali di una società libera, il nostro compito è quello di utilizzarle continuamente in modo di esercitare una "resistenza" quotidiana contro ogni rischio totalitario, piccolo (le prepotenze dei nostri vicini) o grande (la volontà di dominare il mondo) che sia.

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BIBLIOGRAFIA

 

 

AA.VV.          La società contemporanea Vol.I, Utet, Torino, 1987;

Arendt H.         Le origini del totalitarismo, Ed. di Comunità, Milano, 1996 (1951);

Candeloro G.         Storia dell'Italia moderna Vol. VIII, Feltrinelli, Milano, 1989 (1978);

Chabod F.         L'Italia contemporanea, Einaudi, Torino, 1994 (1961)

David C.         Hitler e il nazismo, Tascabili economici newton, Roma ,1994;

Desideri A.         Storia e storiografia Vol. III, G. D'Anna, Firenze 1990;

Gaeta F.         Democrazie e totalitarismi dalla prima alla seconda guerra mondiale, Il mulino, Bologna, 1982;

Hobsbawn E. J. Il secolo breve, Rizzoli, Milano, 1995;

Koyrè A.         Riflessioni sulla menzogna politica, De Martinis &          C., Catania, 1994;

Paris R.         Le origini del fascismo, Mursia, Milano, 1970;

Schulze H.         La repubblica di Weimar, Il Mulino, Bologna, 1987;

Sternhell Z.         Nascita dell'ideologia fascista, Baldini&Castoldi, Milano, 1989;

Welter G.         Storia della Russia, Cappelli, s.l., 1961.

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Postfazione

di Raffaele Paolo Coluccia

 

 

Senza retorica, contro ogni tipo di totalitarismo

         Lorenzo Cattoni ha 27 anni, ha conseguito la laurea in Filosofia -indirizzo pedagogico- presso l'Università degli Studi di Milano, con una tesi sulla “Concezione educativa di Carlo Cattaneo” ed attualmente frequenta un corso di perfezionamento in materie filosofiche e storiche presso l’Università Luigi Bocconi di Milano.

         La ricerca da lui compiuta, su incarico dell’Istituto Pedagogico della Resistenza, risponde all’esigenza di fornire ai lettori, in particolar modo agli studenti di scuola media superiore, un agevole e sintetico strumento di indagine sulle cause che hanno portato all’affermarsi dei regimi autoritari nel Novecento, al fine di contribuire a scongiurare il loro ritorno sotto forme più edulcorate ed opprimenti.

         Lo stile sintetico e la chiarezza espositiva permettono di raggiungere anche i giovani lettori, già affaticati da molti impegni ed interessi, i quali potranno apprendere senza difficoltà i contenuti salienti di complessi fenomeni storici.

         L’Istituto e l’Autore, mossi da un serio intento scientifico e divulgativo, non si sono accontentati di esaminare soltanto i regimi fascisti e quello nazista, ma hanno voluto capire anche la degenerazione dello stalinismo.

         Il coraggioso rigore scientifico che ispira questo e gli altri Quaderni della collana consente di suscitare tra i lettori un dibattito costruttivo e coinvolgente, teso ad attualizzare le conquiste libertarie operate dalla Resistenza al nazifascismo, a prevenire il ritorno delle dittature, nonché a promuovere il pluralismo e la democrazia, quali migliori strumenti per il perseguimento del bene comune e per la piena realizzazione della persona umana.

         Le riflessioni che i lettori vorranno cortesemente far pervenire (ed esporre nei dibattiti promossi dall’Istituto) costituiranno un contributo importante per la promozione democratica e saranno pubblicati sulla nostra rivista.

         Oltre agli autori dei Quaderni, un ringraziamento per la preziosa collaborazione è dovuto agli altri membri del Comitato scientifico-editoriale, professori: Mariella Bucceri, Massimo Camocardi, Gerardo Casanova, Giovanni Corallo, Elena Ferrazzo, Maria Ferrucci, Silvia Melocchi, Teresa Memo, Antonia Anna Milano, Francesca Mori, Ornella Nava, M. Antonella Olgiati, Anna Maria Polettini, Roberto Ramoscelli, Ferdinando Sabatino, Clara Savidi, Andrea Zanardo. Si ringraziano inoltre: il Consiglio Direttivo ed il Presidente dell’I.D.P.R. Orazio Pizzigoni, per aver promosso e sostenuto l’iniziativa dei Quaderni, il prof. Iliano Geminiani per gli utili consigli editoriali e l’amministratore dell’I.D.P.R. Pietro Vecchio per la sua disponibilità.

 

Milano, 25 aprile 1998

Raffaele Coluccia

Direttore dell’I.D.P.R.

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Istituto Didattico Pedagogico della Resistenza

Nuova   bine   editore    Milano


 

NOTE

[1]Si analizzerà la situazione in Europa dal 1920 al 1939.

[2]Rielaborato da: C.J. FRIEDRICK-Z.K. BRZESINKI, Totalitarian Dictatorship and Autocracy, New York, Praeger, 1966

[3]N.ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, voce "Totalitarismo", pag. 880, ed. TEA, Milano, 1993

[4]G. PASQUINO, "I sistemi politici contemporanei" in AA.VV, La società contemporanea, vol. I, pag. 627, UTET, Torino, 1987

[5]Ivi, pag. 629

[6]H. Arendt, Il totalitarismo, pag. 424

[7]G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, vol. VIII, Universale Economica Feltrinelli, 1989, pp. 352-353

[8]Ibidem, pag. 346

[9]Su questa tematica prendiamo atto dell'attenta ricerca di H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cui facciamo qui riferimento.

[10]H. Arendt, Il totalitarismo, pag. 435

[11]Ivi, pp. 435-436

[12]Ivi, pag. 437

[13]Ivi, pp. 440-441

[14]Ivi, pag. 441

[15]É interessante notare che sia nella Germania nazista che nella Russia stalinista i nemici si sono moltiplicati in continuazione, non appena ne veniva sconfitto un gruppo ne appariva immediatamente un altro che congiurava contro la rivoluzione.

[16]L. PELLICANI, "I Soggetti del Totalitarismo" pag. 708

[17]H. ARENDT, Le origini del Totalitarismo, pag. 522

[18]H. ARENDT, op. cit., pag. 505

[19]Ivi, pag. 507

[20]H. ARENDT, Le origini del Totalitarismo, pp. 516-517

[21]Ivi, pag. 516

[22]L. PELLICANI, "I Soggetti del Totalitarismo", pag. 712

[23]L. PELLICANI, "I soggetti del totalitarismo", pag. 719

[24]H. ARENDT, Le origini del Totalitarismo, pag. 488

[25]L. PELLICANI, op. cit., pag. 723

[26]H. ARENDT, op. cit., pag. 589

[27]L. PELLICANI, op. cit., pag. 722

[28] Ivi, pag. 721

[29]H. ARENDT, op. cit., pag. 585

[30]Ivi, pag. 595

[31]Basti qui ricordare che Troskij, dopo essere stato allontanato dall'Unione Sovietica e considerato un nemico del popolo, fu anche cancellato dalle foto che lo ritraevano, nel corso di comizi popolari, a fianco di Stalin.

[32]H. ARENDT, op. cit., pag. 583

[33]Ivi, pag. 588

[34]L. PELLICANI, op. cit., pag. 715

[35]Ivi, pag. 717

[36]H. ARENDT, op. cit., pag. 599

[37]Ibidem

[38]Ivi, pag. 623

[39]Ivi, pag. 623

[40]Ivi, pag. 607

[41]É interessante notare che l'organo di stampa ufficiale sovietico si chiamava Pravda, il cui significato è "Verità".

[42]A. KOYRÉ, Riflessioni sulla menzogna politica, De Martinis & C., Catania, 1994, pag. 15

[43]Ivi, pag. 21

[44] Ivi, pag. 17

[45]Ivi, pag. 31

[46]Ivi, pag. 39

[47]Ivi, pag. 36

[48]Si prende qui atto dell’analisi condotta dalla Arendt nell’opera citata Le origini del totalitarismo, che considera l’instaurarsi del regime totalitario in Russia solo a partire dalla presa del potere da parte di Stalin.

[49]Cfr. A. DESIDERI, Storia e storiografia, vol. III, Firenze, G. D’Anna, 1989, p. 468.

[50]M. LEWIN, Storia sociale dello stalinismo, Torino, Einaudi, 1988

[51]La città di Fiume era stata occupata da gruppi nazionalisti - guidati dal poeta D'Annunzio - che rivendicavano la sovranità italiana sulla città, protestando contro l'ordine geografico sancito dal trattato di Versailles.

[52]G. CANDELORO, Storia dell'Italia moderna, Vol. VIII, Feltrinelli, Milano, 1989 (1978), pag. 343

[53]F. CHABOD, L'Italia contemporanea, Einaudi, Torino, 1994 (1961), pp. 54-56

[54]Mussolini nell'ottobre del 1922 ordinò ai suoi seguaci di marciare su Roma. Il presidente del consiglio Facta decise di fronteggiare la situazione, si recò dal re con un decreto che proclamava lo stato d'assedio. Vittorio Emanuele non lo firmò, e il 29 ottobre inviò un telegramma a Mussolini (che era a Milano) invitandolo a formare un nuovo governo.

[55]La legge Acerbo stabiliva che due terzi dei seggi sarebbero stati assegnati al partito che avesse ottenuto più voti, anche senza aver raggiunto la maggioranza assoluta.

[56]F. CHABOD, Op. cit., pag. 63

[57]Ivi, pag. 64

[58]Ivi, pag. 65

[59]Ivi, pp. 65-66

[60]H. SCHULZE, La repubblica di Weimar, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 45

[61]Il totalitarismo completo non è stato diffuso a macchia d'olio sull'intera nazione per cause non inerenti alla volontà del movimento, che infatti avrebbe voluto il dominio totale e incondizionato su tutti gli abitanti della terra. Furono la reazione dei Paesi democratici, il fallimento dell'economia comunista, la resistenza delle voci dissidenti che sconfissero questi movimenti prima che essi riuscissero ad impadronirsi totalmente di tutto e tutti. Nonostante ciò riuscirono ad uccidere milioni di persone senza alcun motivo reale.

[62]H. ARENDT, op. cit., pag. 611

 

 



 

 

 

 

Quaderni del Pedagogico

La lezione del Novecento  (3)

 

 

 

 

Terrorismo

e servizi

segreti

in Italia

 

 

 

 

 

 

Alessia  Dimitri

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alessia Dimitri

TERRORISMO E SERVIZI SEGRETI IN ITALIA

 

 

Parte prima. Il terrorismo

 

Il partito armato

Eversione e stabilizzazione

 

Il terrorismo nero

 

Le brigate rosse: dalla propaganda armata

all’attacco al cuore dello stato

 

L’affaire Moro

 

Il terrorismo dopo Moro

 

Combattenti o criminali?

 

Parte seconda. I servizi segreti

 

Il dopoguerra: nascono i moderni servizi segreti

 

I servizi deviati

 

I servizi segreti ed il terrorismo rosso

 

La riforma del ‘77

 

Gli anni ottanta e gladio

 

Conclusioni

 

Cronologia

 

Bibliografia


 

 

Prefazione

 

L’interrogativo che sgorga naturale da questa veloce storia sul terrorismo e sui servizi segreti in Italia è semplice e, nello stesso tempo, estremamente complesso: come è infatti possibile conciliare, alla vigilia del Terzo Millennio, la democrazia con logiche che tendono a escludere la società civile da scelte che decidono del suo futuro? Il terrorismo nero e rosso è fallito perché, nella sostanza, al di là delle ragioni messe a fondamento da chi lo ha gestito, si arrogava il diritto di determinare gli orientamenti del Paese prescindendo dalla volontà della gente così come era stata democraticamente espressa. In un convegno di alcuni anni fa promosso dall’ANPI e da altre associazioni milanesi, si affermava che la “democrazia ha bisogno di verità”. Sacrosanto. Resta il fatto, però, che sulle tante stragi provocate in Italia, in cui il terrorismo e servizi segreti rivelano un intreccio impressionante, questa verità non è riuscita ancora a farsi strada, mortificando non solo l’ansia di giustizia dei cittadini, ma la stessa democrazia per la quale milioni di italiani si sono battuti e molti anche sono morti. I servizi segreti allora eredità di concezioni autoritarie, contraddizione interna delle società democratiche che vedono negato il principio fondamentale su cui si reggono (la sovranità appartiene al popolo)? Non c’è dubbio. Ma è possibile ipotizzarne l’abolizione in un solo Paese o in un’area ristretta del pianeta? Tutti i Paesi dispongono di servizi segreti per cui chi se ne priva finisce per trovarsi in una oggettiva posizione di debolezza. E allora? La ricerca di soluzioni che consentano alle istituzioni democratiche il loro controllo è sicuramente la strada più praticata. Ma fino a che punto questo controllo si può esercitare senza intaccare il carattere “segreto” di questi servizi? Quesiti difficili, tormentosi, che lasciano ampi spazi all’arbitrio di uomini e gruppi. Un capitolo, quello dei servizi segreti, che, lo si voglia o no, rappresenta una mina vagante per la vita democratica. Un capitolo sul quale le nuove generazioni dovranno esercitare attenzione e intelligenza. Nella speranza che un giorno l’umanità pacificata disponga di regole e istituzioni in grado di gestire lo sviluppo del pianeta, libera dagli attuali condizionamenti. Un sogno? Forse. A cui però non è possibile rinunciare senza rischiare di farsi dominare dal groviglio degli interessi che assediano la democrazia.

L’Istituto didattico pedagogico della Resistenza

 

 

 

 “C’è una Italia che ha imparato a vivere con il terrorismo e un’altra che finge di non vederlo.[...]; forse perché il terrorismo appartiene ai rimorsi e alle colpe inconfessate della nazione. Ma ciò che si sa, ciò che emerge va raccontato nel modo più chiaro e onesto possibile, perché si tratta di una vicenda nostra e politica, non estranea al paese e demoniaca”.

G. Bocca

 

 

 

 

Legge 24 ottobre 1977, numero 801. Articolo 12: Sono coperti da segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recar danno all’integrità dello Stato democratico anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, al libero esercizio delle funzioni degli organi istituzionali, alla indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato. In nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell’ordinamento costituzionale.  

 

 

 

PARTE PRIMA

 

IL TERRORISMO

 

 

IL PARTITO ARMATO

Il nostro Paese è stato per circa vent’anni il paese del terrorismo, o meglio dei terroristi: un clima di costante ricatto teneva in ostaggio le istituzioni democratiche che, già non solidissime, hanno (o avrebbero) dovuto elaborare strategie di risposta su fronti diversi e tra loro diversificati: dai tentativi di golpe da parte di prìncipi neri, agli attacchi al cuore dello Stato delle BR.

Quello  che accomuna forme così diverse di terrorismo, che pure hanno avuto radici culturali e obiettivi anche diametralmente opposti, è il loro poter essere considerate un “partito armato”.

L’espressione era stata coniata da Aldo Moro, proprio vittima-simbolo di quella stagione di terrore, ed evidenzia il tratto caratteristico fondamentale che distingue il fenomeno in questione da qualsiasi fenomeno criminale: la sua consistenza politica.

Questo preliminare distinguo è imprescindibile per chiunque voglia accostarsi alla vicenda del terrorismo con consapevolezza critica, senza fermarsi a generici giudizi moralistici, che in nulla aiutano la comprensione del peso che essa ha avuto nella storia dell’Italia post-bellica.

Si può parlare di partito armato, in Italia più che in ogni altro paese, in quanto le organizzazioni di lotta armata hanno avuto i due requisiti fondamentali propri di un partito: da un lato lo spessore ideologico, e dall’altro la capacità di condizionare la vita politica e istituzionale dello Stato.

E’ impensabile, inoltre, parlare di terrorismo senza metterlo in relazione alle vicende politiche, istituzionali ma non solo, in cui esso nasce e si sviluppa; Giorgio Bocca a un anno di distanza dall’assassinio di Aldo Moro scriveva: “[...] il terrorismo rosso non è patologia e neppure figlio di nessuno; ma effetto estremo di una crisi che è stata di tutti, risposta estrema a una paura che è stata di molti.”

 

 

EVERSIONE  E  STABILIZZAZIONE

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta l’Italia attraversa una fase politica molto delicata, che vede ormai esaurita la ricostruzione post-bellica, ma ancora non adeguate le strutture istituzionali, e una vita democratica che stenta a trovare un equilibrio. Il progetto del centrosinistra, cioè del governo di coalizione tra democristiani e socialisti, è fallito; il movimento studentesco del ‘68 ha una parabola tanto entusiasmante quanto breve  (che non poca influenza avrà sull’eversione di sinistra); ad esso succede l’autunno caldo del ‘69, l’anno delle grandi rivendicazioni operaie, delle speranze sindacali ... A fare da controparte a questo c’è una democrazia debole e poco trasparente, che vive di occupazioni di potere più che di strategie legislative, che ancora non ha finito di pagare il suo debito politico all’America del piano Marshall e che ha già alle sue spalle un progetto di golpe nel ‘64.

Reso noto tre anni dopo sulle colonne dell’Espresso, esso consisteva in un piano di emergenza messo a punto dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, che avrebbe dovuto assumere con le sue sole forze (piano Solo) il controllo dell’ordine pubblico, occupando Prefetture; RAI-TV, carceri, sedi di partiti, sindacati e giornali.

La relazione della commissione parlamentare d’inchiesta propende per attribuire interamente la responsabilità al gen. De Lorenzo, comandante dell’Arma dei Carabinieri, ma sembra improbabile che un membro dei vertici militari possa elaborare un piano di emergenza all’insaputa del capo dello Stato e di almeno una parte della classe politica.

Al di là delle singole responsabilità personali, comunque, su cui la cautela è d’obbligo, il piano Solo è forse il primo atto di quella torbida stagione di dubbi e di sospetti, di versioni ufficiali e verità negate, in cui ancora il nostro Paese ancora si dibatte. Essa mostrerà il suo lato più oscuro e violento solo pochi anni dopo, con la tragedia di piazza Fontana (1969).

Siamo in pieno autunno caldo quando sedici persone muoiono per l’esplosione di un ordigno all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano: ancora senza colpevoli, è l’inizio di un’escalation di sospetti per cui perderanno la vita altre persone.

Viene inizialmente seguita la pista anarchica, che porta all’arresto di Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli, ma già l’opinione pubblica sembra poco convinta di questa tesi: il fermo dei due è stato troppo tempestivo, e sembra non esserci a loro carico nessun indizio. Dopo 48 ore di fermo, il ferroviere Pinelli cade dalla finestra del quarto piano della questura di Milano morendo sul colpo. La versione ufficiale è di suicidio, l’anarchico sarebbe così anche reo confesso, ma già in molti pensano ad un omicidio, perpetrato per coprire gravi responsabilità.

Qualche mese dopo, nel giugno del ‘70, viene pubblicato un libro che farà epoca: una controinchiesta sulla strage che ha per titolo un’espressione divenuta poi celebre: “La strage di Stato”.

Prende consistenza, soprattutto nell’area di sinistra, l’ipotesi di una non casuale concomitanza tra le lotte operaie dell’autunno caldo, e il repentino richiamo all’ordine pubblico seguito naturalmente alla strage.

Il processo viene trasferito da Roma, a Milano, a Catanzaro: le indagini sono in più modi intralciate e i processi boicottati. La tensione cresce, e nel ‘72 finalmente Valpreda è scarcerato, mentre si comincia a seguire la pista nera con l’arresto di neofascisti Freda, Ventura e Giannettini (anche uomo dei servizi segreti) con l’accusa di strage. Condannati all’ergastolo in primo grado, saranno assolti nel 1981 dalla Cassazione.

La strage è tuttora senza colpevoli e le indagini proseguono, ormai soltanto sulla pista nera.

 

 

IL TERRORISMO NERO

E’ dunque in questo contesto di forti tensioni e sospetti sulla trasparenza e sull’affidabilità delle istituzioni che nasce il terrorismo.

Immediatamente si delineano delle fortissime differenze tra quello di matrice neofascista e quello di sinistra. Divergono profondamente non solo i sostrati ideologici, ma anche modalità e obiettivi degli attentati e delle rivendicazioni, e la formazione culturale ed esistenziale degli aderenti.

Privi di una precisa strategia politica, i gruppi terroristici o paraterroristici di marca neofascista nascono in ambienti vicini a quelli militari dopo il ‘68. Si costituiscono così organizzazioni come Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo e Fronte Nazionale, che andranno a formare una rete eversiva attraverso cui passeranno gran parte degli episodi che costituiranno la strategia della tensione.

Quello dei rapporti tra gruppi neofascisti e apparati di ordine pubblico, costituisce un terreno vischioso che corre parallelo a tutta la storia della repubblica, ma di cui si è ancora lontani dall’individuare i confini precisi.

Si può dire però che certamente lo scollamento della classe politica e degli apparati istituzionali, anche di fronte ad avvenimenti come la scoperta del piano Solo, ha reso possibile che i servizi segreti e alcuni settori delle forze armate conquistassero una sempre maggiore autonomia di movimento, anche in connessione con organizzazioni legali o semi-legali non solo italiane.

E’ difficile dire in che misura la base delle organizzazioni di estrema destra fosse consapevole di questa strumentalizzazione per fini diversi: molto spesso anzi le dichiarazioni degli stessi terroristi fanno pensare più ad una guerra privata che ad un progetto rivoluzionario di qualsivoglia natura.

Incisivi, a questo proposito, sono alcuni passi di una intervista che Vincenzo Vinciguerra, terrorista neofascista reo confesso della strage di Peteano (1972) in cui rimasero uccisi tre carabinieri, ha rilasciato al giornalista Sergio Zavoli nel ‘93:

V.V.: “ Ci sono due punti importanti da chiarire: non c’è stata nessuna confessione. C’è stata un’assunzione di responsabilità [...], che però non deve essere intesa come rivendicazione, eventualmente, dell’attentato; non atto di contrizione, come fa intendere il termine confessione.

L’altro punto riguarda il termine di strage. Giuridicamente è strage qualsiasi fatto provochi la morte di più di due persone o comunque che ponga in pericolo l’incolumità di diverse persone. Sul piano morale, la strage è quella che colpisce indiscriminatamente obiettivi civili, falcia la popolazione civile, nelle banche, nelle stazioni ferroviarie, sui treni. Un obiettivo militare colpito nell’ottica di un attacco allo Stato non può essere messo sullo stesso livello dell’attentato di piazza Fontana [...].

S.Z.: “ E quei carabinieri che non sapevano di essere in guerra?”

V.V.: ”Ma i carabinieri sapevano di essere in guerra perché lo Stato lo è da anni. Ancora prima del 1972 si parla di conflitto in Italia [...]”.

S.Z.: ”In uno Stato di diritto la parte che lei considera avversa non ha mai inteso partecipare ad una guerra”.

V.V.: ”Ma io dico di più. Dico una cosa diametralmente opposta dalla sua. Dico che lo Stato ha dichiarato una guerra senza avvertire la popolazione, e l’ha fatta, questa guerra; quindi i carabinieri di Peteano non avevano colpe specifiche ... ma dire che non c’è stata una guerra, che non c’era una guerra già nel 1972, è una cosa inesatta. [...] Da parte mia contro lo Stato, da parte dello Stato guerra contro questa nazione. [...] Lo Stato strumentalizza oppositori, crea una situazione di scontro, destabilizza l’ordine pubblico al fine di stabilizzare l’ordine politico. [...] Ma questa non è una guerra classica. Questa è una guerra che i tecnici degli stati maggiori, compreso quello italiano, dichiarano “non ortodossa”. La guerra che ha per obiettivo le menti, le coscienze, i cuori e gli animi degli uomini, non i territori. La guerra non ortodossa non risponde alle regole della guerra classica: e questo degli agguati, degli attentati, non è che un mezzo, uno dei tanti impiegati in questo tipo di guerra anche dai militari in uniforme, ai quali però nessuno rimprovera l’adozione di certi metodi. Si rimprovera soltanto a coloro che non hanno un’uniforme visibile. [...] Questi servizi “deviati”, conoscono perfettamente il mondo neofascista. [...] Sono stati informati nei mesi seguenti all’attentato con indicazioni generiche e poi nell’ottobre 1972, hanno avuto in mano elementi concreti per poter provare la mia responsabilità nell’attentato di Peteano. Non lo hanno voluto fare, e non perché io ero un uomo da proteggere da parte di questi servizi, e tanto meno da parte dell’Arma dei Carabinieri, ma perché il farlo contrastava con la strategia politica che stavano portando avanti. [...] L’attentato di Peteano non poteva provocare alcuna reazione popolare; escludeva il popolo, non lo coinvolgeva. Il popolo non poteva dire di no perché non gli ho lanciato alcun messaggio. L’attentato di Peteano era un messaggio interno al mondo al quale appartenevo.[...] Di fronte ad un attentato che è costato la vita a tre carabinieri lo Stato nega la verità, e chi ha compiuto l’attentato, invece, la afferma. La afferma prendendosi un ergastolo, non ripudiandolo. Non chiedo nulla perché non ho nulla da chiedere a questo Stato, ma soltanto da dare quello che gli ho sempre dato: il disprezzo che merita.”

In questa intervista c’è tutto il volto del terrorismo di destra: la solitudine eroica di una generica guerra contro lo Stato corrotto e violento, l’assenza di un qualsiasi elaborato progetto politico, e infine la collusione con apparati nevralgici delle istituzioni, che non proteggono uomini come Vinciguerra, ma tacciono per anni a causa di una precisa strategia politica (ammesso che i servizi segreti debbano poter elaborare strategie politiche autonome).

L’attentato di Peteano si colloca in un periodo molto delicato della storia d’Italia, a meno di due anni da un tentativo di golpe (dicembre ‘70) ad opera del principe neofascista Junio Valerio Borghese, golpe scongiurato all’ultimo momento a causa di un misterioso contrordine di incerta provenienza. Sulla notte di Tora-Tora, come fu chiamata la notte del tentato colpo di Stato, un solo imperativo: il silenzio.

Si scoprirà l’implicazione del massone Licio Gelli e di Stefano delle Chiaie, terrorista neofascista latitante perché indagato per la strage di piazza Fontana, che, riuscito ad arrivare nell’armeria del Viminale, doveva consegnare duecento mitra per i golpisti.

Borghese potrà vantare molte coperture, tra cui quella dei servizi segreti diretti in quegli anni da Vito Miceli, che si scoprirà essere membro della P2 di Gelli.

Chi avrebbe beneficiato del golpe, chi avrebbe dato il contrordine e che ruolo hanno avuto i servizi segreti in questa vicenda e in altre di marca neofascista ?

Le fitte trame che legano servizi segreti e terrorismo nero si fanno, negli anni successivi a piazza Fontana e al golpe Borghese sempre più intricate.

Nel maggio 1972 viene ucciso il commissario Luigi Calabresi: si indaga negli ambienti della sinistra extraparlamentare, da cui Calabresi era sempre stato ritenuto il responsabile della morte di Giuseppe Pinelli e l’uomo simbolo della violenza di Stato. La tesi che l’omicidio sia maturato come vendetta alla morte dell’anarchico non è stata praticamente mai messa in dubbio, ed ha portato nel ‘97 (dopo alterne vicende processuali) all’arresto definitivo[1], forse senza delle prove sufficientemente plausibili, di Adriano Sofri, (di Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani), all’epoca leader dell’organizzazione di estrema sinistra Lotta Continua, fin dal ‘69 tra i principali accusatori del commissario Calabresi. Una nota a margine: dal 1971 Calabresi stava indagando su una vicenda che riguardava l’estrema destra neonazista: un traffico d’armi e finanziamenti agli eversori tedeschi.

Si allunga quindi la lista delle vittime in qualche modo legate a piazza Fontana: dai sedici morti del 12 dicembre del ‘69, alla morte di Pinelli, a quella di Calabresi, fino a quattro nuove vittime il 17 maggio del ‘73.

Davanti alla questura di Milano, in via Fatebenefratelli, si sta svolgendo una cerimonia in memoria del commissario Calabresi, presente il Ministro dell’Interno Mariano Rumor: esplode una bomba che uccide quattro persone e ne ferisce cinquantadue. L’attentatore viene subito arrestato: si chiama Gianfranco Bertoli e dice di essere un anarchico. Le conclusioni che ne vengono tratte sono intuibili, ma Bertoli ha mentito: non solo non è anarchico, ma è stato anche agente dei servizi segreti.

In Italia non ci sarà mai un golpe, ma l’aria plumbea della repressione, dell’impunità e delle complicità creano un clima di tensione e insieme di rassegnazione nell’opinione pubblica che la rendono politicamente più manovrabile.

Ma qual è l’origine politica del terrorismo nero? Secondo Giorgio Bocca esso nasce nell’immediato dopoguerra, quando i servizi segreti alleati si adoperano per costruire nel nostro paese una rete di informatori e di collaboratori in funzione anticomunista. La possibilità di questo reclutamento è strettamente legata all’amnistia dei fascisti incarcerati concordata tra De Gasperi e Togliatti, che permetterà alle ex camicie nere di ricostruirsi in partito.

La nascita dell’MSI risulta paradossalmente funzionale alla tenuta dell’equilibrio politico esistente, per la sua possibilità di assorbire e incanalare frange sovversive, e insieme per la sua ricattabilità in quanto totalmente dipendente ( in ragione dell’amnistia stessa) dai partiti di governo e dalla diplomazia segreta.

Queste sono le ragioni di fondo, aggiunge Bocca, per cui il terrorismo nero sarà sempre, in qualche modo terrorismo di Stato, subalterno ai poteri occulti e separati dello Stato.”

La parabola delle organizzazioni e delle azioni di stampo neofascista sembra confermare questa tesi: arriva un momento, pressappoco intorno al ‘74 (dopo le stragi dell’Italicus e di piazza della Loggia), in cui il terrorismo nero si avvia ad una inarrestabile caduta: si capisce che esso non funziona politicamente, che invece di spostare i voti verso destra, li ha spostati verso sinistra; e poi il golpismo alla maniera di Borghese non è più adeguato a delle strutture democratiche che, almeno apparentemente, si stanno rafforzando: “adesso i suoi eroi sono invecchiati, scrive ancora Bocca, e i nuovi padroni, i corpi separati dello Stato, i servizi che rappresentano in Italia gli interessi della potenza imperiale e del comando della NATO non vogliono spingere il gioco oltre un certo limite: la Democrazia Cristiana non sembra sostituibile come partito di governo; basta condizionarla a destra, rimetterla in giusta linea quando sbanda. Non è il grande golpe che preoccupa gli antifascisti, ma la progressiva saldatura tra apparato dello Stato e forze reazionarie, lo spettacolo quotidiano di complicità tra polizia e squadre nere.”

 

LE BRIGATE ROSSE: DALLA PROPAGANDA ARMATA ALL’ “ATTACCO AL CUORE DELLO STATO”

- “Pensa che la strage di piazza Fontana abbia avuto un peso nell’origine del terrorismo rosso, e in quale misura?”

- “[...] da quel momento ho deciso che avere in tasca una pistola non era un reato, visto che serviva.”

A dare questa risposta in un’intervista è Alfredo Bonavita, uno dei fondatori delle BR. In realtà non ha mai ucciso, e ha scontato 14 anni di carcere.

Sicuramente piazza Fontana, la strage di Stato, è stato un episodio fondamentale per la nascita del terrorismo rosso, ma in che contesto politico, nazionale ed internazionale, si colloca ? Rispondere a questa domanda vuol dire non fare l’errore di tutti i partiti negli anni ‘70, quello cioè di collocare il fenomeno terroristico fuori dalla vita politica del Paese, lavandosi le mani e la coscienza di responsabilità che, certamente indirette, non possono essere ignorate.

Ma da quali tradizioni e situazioni nasce la decisione di un’avanguardia giovanile di passare alla lotta armata?

Vi sono certamente diversi ordini di ragioni: uno di questi è certamente di risposta alla minaccia di golpe autoritario diffusasi tra il ‘64 e il ‘70, anni in cui in ambienti comunisti e partigiani si teme di essere arrestati di notte, e di trovare i carri armati nelle strade al mattino. Quanto questo pericolo fosse reale, e quanto la destra italiana fosse in grado di una eroica e solitaria presa del potere, è cosa che oggi può essere messa fortemente in dubbio, ma certamente in quegli anni il timore era molto più diffuso, soprattutto dopo il golpe greco del ‘69.

Un altro fattore che sicuramente ha contribuito alla nascita di una sinistra eversiva è stata la tradizione del movimento operaio e contadino, che in Italia, come altrove, è stata una storia di violenza politica[2]: prima sotto la guida anarchica, poi del socialismo massimalista, ma che anche sotto l’egida del sindacato e del partito comunista ha avuto in sé isole di violenza, forse proprio perché, quanto più sindacato e partito diventavano minimalisti nei loro programmi, (e moderati nelle loro richieste), tanto più si aprivano spazi ai gruppi “rivoluzionari”: la cosiddetta Autonomia Operaia, ad esempio.

Il PCI non ha ancora enunciato la tesi del compromesso storico, ma è comunque un partito che sta cambiando, sempre meno operaio e più burocratizzato, mentre le nuove leve della sinistra hanno in mente la tradizione partigiana, diventata quasi leggenda nei racconti della generazione precedente.

E’ il 16 aprile 1970: una voce si inserisce nel telegiornale delle 20.00, il messaggio, che è captato a Genova, Milano e Trento, annuncia una nuova resistenza alla violenza fascista e dell’imperialismo straniero: “Sono nate le Brigate Rosse e si sono ricostituite le Brigate Gap”.

I Gap[3] sono il primo gruppo della sinistra a propugnare il ricorso alla lotta armata, il loro organizzatore e sovvenzionatore è Giangiacomo Feltrinelli. Il loro punto di riferimento è la Resistenza, nell’ottica comune ad una parte della sinistra che essa abbia mancato il suo fine ultimo, quello della rivoluzione proletaria, e che quindi vada proseguita la lotta partigiana fino al suo compimento.

L’appartenenza di Feltrinelli all’alta borghesia milanese è stata spesso motivo di ovvie critiche da parte dei sostenitori della legittimità esclusiva del proletariato a parlare di rivoluzione.

Quasi contemporaneamente, nel ‘69 a Milano, nascono le BR ad opera del Collettivo politico metropolitano di Renato Curcio, Margherita Cagol e Alberto Franceschini, ma la scelta della lotta armata avverrà solo nel ‘70, dopo piazza Fontana.

Di pari passo vanno formandosi altri gruppi che si collocano fuori dalla stessa sinistra extraparlamentare. Dal grande evento del Sessantotto partono due rami: uno marxista-leninista che guarda a Mao e alla rivoluzione culturale cinese, si chiamerà prima Servire il popolo poi Unione dei marxisti-leninisti italiani; l’altro è il ramo operaista, che si propaga nelle fabbriche: dall’unione di studenti e operai della FIAT nascono Lotta Continua e Potere Operaio. Negli anni ‘70 molti provenienti da Potere Operaio e confluiti in Autonomia Operaia si dedicheranno alla guerriglia urbana; anche un gruppo uscito da Lotta Continua imbraccerà le armi, saranno i NAP (Nuclei Armati Proletari).

Fortemente contrario alla lotta armata sarà invece il gruppo de “Il Manifesto” (Rossana Rossanda, Valentino Parlato), costituitosi nel ‘70. Scriverà Parlato:

“Ci abbiamo messo troppo tempo a convincerci che le Brigate Rosse fossero veramente rosse. [...] In primo luogo perché, per noi di sinistra, per noi comunisti, era inconcepibile che il terrorismo fosse arma di lotta politica. In secondo luogo, c’era la strategia della tensione, piazza Fontana. Il sospetto era legittimo. In terzo luogo, perché l’imbroglio c’era e c’è ancora. E’ in grado qualcuno di dire che tutto è chiaro nel rapimento Moro?”

E’ difficile in effetti stabilire quale fosse la nicchia della sinistra in cui le BR si collocano: da un lato c’è il PCI che disconosce apertamente la lotta armata, tanto da essere, durante il rapimento Moro, sostenitore della linea dura almeno quanto la DC; dall’altro c’è un certo seguito operaio in alcune fabbriche del triangolo industriale (Pirelli, FIAT, SIT-Siemens), seguito che però non diventa mai consenso di massa.

Intanto le Br cominciano la loro attività con delle azioni dimostrative, quelle della cosiddetta propaganda armata: dai primi volantini con la sigla BR e la stella a cinque punte, diffusi nel quartiere Lorenteggio a Milano (primavera del ‘70), all’incendio di macchine di capi intermedi e dirigenti di fabbrica (soprattutto SIT-Siemens e Pirelli), fino al marzo del ‘72, quando rapiscono per alcune ore e fotografano con una pistola puntata alla tempia il dirigente della SIT-Siemens Macchiarini. Queste prime azioni sono modeste, commentate da un linguaggio forzatamente operaistico e massimalista, che ricorda più la tradizione anarchica che quella di Ordine nuovo, lo storico movimento torinese di Gramsci e Togliatti.

In questi primi anni i terroristi ottengono il loro scopo, quello di farsi conoscere, ma la notorietà va di pari passo con l’ambiguità, e le BR non riescono a trovare una collocazione politica. Forse perché la loro analisi della società italiana è fortemente datata: non esiste più nel nostro paese una borghesia imprenditoriale forte, il potere politico ha tolto peso anche ad essa: il nemico costituito delle storiche lotte operaie in realtà non esiste più, o perlomeno non ha più la stessa fisionomia. Quanto successo poteva avere, del resto, l’applicazione del modello cinese, russo o cubano, a quell’intreccio inestricabile di poteri, da quelli locali a quelli internazionali, che è stata l’Italia del dopoguerra ?

Intanto i brigatisti continuano ad alzare il tiro, rapendo per otto giorni il capo del personale della FIAT Ettore Amerio.

Poi il 1974 è l’anno della svolta. Viene rapito il giudice Mario Sossi: si chiude la fase della propaganda in fabbrica e comincia l’attacco al cuore dello Stato. Durante il sequestro Sossi le forze dell’ordine danno prova di totale impotenza. Inoltre la coincidenza del rapimento con la campagna elettorale per il referendum sul divorzio, insinua il dubbio che l’operazione sia pilotata per spostare voti verso la linea fanfaniana.

Viene chiesta la liberazione dei detenuti del gruppo XXII Ottobre (quello di Valpreda) in cambio della vita di Sossi. Le trattative iniziano, ma vengono bloccate dal Procuratore della Repubblica di Genova Coco. Le BR cedono e liberano Sossi; due anni dopo Coco verrà ucciso.

Il giudice Giovanni Tamburino, che conduce le indagini sulla “Rosa dei Venti”, un’organizzazione sovversiva di cui fanno parte ufficiali dell’esercito e militari di estrema destra, scriverà:

“Il 1974 è un anno di svolta, cioè rappresenta il punto in cui si ha forse l’esplosione massima della potenza del terrorismo eversivo di estrema destra e inizia invece a decollare in modo quasi irresistibile il terrorismo delle Brigate Rosse. Ora, questa variazione, era stata profetizzata da esponenti molto autorevoli dei servizi segreti e, inoltre, si ritrova in uno degli ultimi numeri della rivista “OP” di Pecorelli, dove si legge, appunto, che sarebbe cambiata la strategia e che da allora in poi vi sarebbe stato un appoggio all’altro versante, per così dire, del terrorismo.”

Il passaggio dalla propaganda armata alla strategia dei ferimenti e delle uccisioni, obbliga le Brigate Rosse ad una più rigida organizzazione per la scelta delle persone da colpire. Intere frange hanno il compito di costituire schedari ed archivi, dove verrà raccolta una mole impressionante di informazioni su politici, giornalisti, magistrati e uomini delle forze dell’ordine. Ma il 1974 è anche per alcuni aspetti l’anno del declino. C’è un momento in cui si ha l’impressione che l’avventura delle BR sia finita: non solo per le sconfitte e gli arresti, ma soprattutto perché, come scrive Giorgio Bocca, “sembra ormai ridotta ad un gioco poliziesco di guardie, ladri e spie”.

Comincia infatti ad essere usata l’arma degli infiltrati, primo fra tutti Silvano Girotto, che porterà all’arresto di Renato Curcio. L’organizzazione, così come l’aveva concepita il gruppo storico, non può più reggere, e muore nella primavera del ‘74: le nuove BR, quelle successive all’arresto di Curcio e Franceschini e alla morte di Maria Cagol (avvenuta durante uno scontro a fuoco con dei Carabinieri con modalità mai chiarite)[4], saranno molto diverse: “più feroci, più terrorizzanti, più numerose, più legate ai piani del terrorismo internazionale, più misteriose.”

Come dopo la strage di piazza Fontana era cominciata la propaganda armata delle BR, dopo quella di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974) si inizia a sparare per uccidere.

Un evento che peserà moltissimo sull’organizzazione, la struttura e la stessa natura delle nuove BR, sarà il “movimento” del ‘77. Esso nasce in parte dalla deludente situazione politica seguita alle elezioni del 20 giugno del ‘76: la lista di estrema sinistra (Democrazia Proletaria) ottiene appena l’1.5 % dei voti, mentre il PCI raggiunge il suo massimo storico con il 34.4 %, e la sinistra nel suo insieme arriva al 47 %. Nonostante questo si costituisce un governo monocolore della DC, che si regge sull’astensione di tutti i partiti dell’arco costituzionale (dal PLI al PCI). Ormai il PCI ha scelto definitivamente di stare col governo: la frattura con le minoranze più “dure” è inevitabile, con tutte le conseguenze che ne derivano. Questa situazione concorre a determinare una sorta di rivolta giovanile, le cui frange estreme contribuiranno al rilancio della lotta armata: intorno alle nuove BR di Moretti, e al neonato gruppo Prima Linea.

Nel 1977 arriva anche il primo processo alle BR: si svolge a Torino, si trasforma in una prova di forza, e i brigatisti vincono subito il primo round, avviando una campagna di terrore che impedisce, il 3 maggio, l’udienza per la mancata costituzione della giuria popolare. La paura è stata più forte. Il processo ricomincerà solo nel marzo del ‘78, e Torino sarà una città assediata. Ne dà un incisivo resoconto Giorgio Bocca, sotto alcuni profili uno dei testimoni più lucidi di quegli anni:

“Non è facile seguire come cronista questa vicenda italiana antica e conosciuta che è il processo alle Brigate Rosse; non è per niente facile evitare sentimenti di vergogna, di pena, di stanchezza. I brigatisti e i loro parenti parlano di repressione fascista, la condizione delle carceri speciali è certamente dura e crudele; ma la vergogna qui non viene da questo o quell’aspetto feroce o ingiusto della vicenda, viene, globalmente, dalla sua inutilità e dalla sua ambiguità. In non pochi momenti ci si sorprende a chiedersi che cosa significhino questi imputati, questi giudici, queste migliaia di poliziotti; che cosa ci sia dietro questa colossale perdita di energie e di entusiasmi giovanili, di tempo, di soldi, di buonsenso. [...] A Torino c’è il processo alle BR come è, e fuori c’è il processo come lo immaginano gli italiani. Il processo di Torino come è non è né la ferma e pacata giustizia dello stato di diritto né la voce indomabile della rivoluzione che cresce; è invece il confronto faticoso tra uno Stato antiquato e una minoranza che esprime con il terrore la sua disperata opposizione.

Lo Stato è quello che è con i suoi carabinieri imberbi, piantati come i soldatini del re sardo di fronte alla gabbia di terroristi di cui non capiscono una parola; [...] è il cancelliere che scrive a mano; è il questore che trova il modo di far perdere due ore vietando l’ingresso ai fotografi; lo Stato è questo cumulo di carte scritte in una lingua orrenda, in disuso fra la gente viva da almeno cinquant’anni; [...]. Ma di fronte a questo ammasso di ritardi e di stanchezza non c’è la rivoluzione ma solo il terrore.

[...] Una pioggia di anni di prigione dati a caso, secondo la gerarchia notoria o romanzata del gruppo storico; di più a Curcio e Franceschini, di meno agli altri, una giustizia d’obbligo che non convince nessuno.”

 

 

L’ “AFFAIRE” MORO

Nel frattempo le BR fuori dal carcere continuano ad agire, e il 16 maggio 1978, giorno in cui si vota la fiducia al nuovo governo Andreotti, l’azione più clamorosa: il rapimento di Aldo Moro.

Con l’agguato di via Fani (in cui perdono la vita cinque uomini della scorta di Moro) giunge al culmine l’attacco al cuore dello Stato; perché il leader democristiano è uno dei rappresentanti di primissimo piano del nostro paese (molte autorità internazionali diffonderanno appelli per la sua liberazione), ma soprattutto perché Aldo Moro sembra essere in quei mesi il fulcro di quel precario equilibrio politico che potrebbe, almeno in apparenza, risolvere i rapporti di peso fra PCI e DC.

Ma il compromesso storico, come viene battezzata questa nuova speranza politica, era ben lontano dal mettere tutti d’accordo: non era solo l’ultrasinistra, che vi vedeva l’ultimo atto di un definitivo spostamento del PCI su posizioni filogovernative, a guardare con sospetto allo storico accordo, ma anche una parte non trascurabile della stessa DC, nonché alcune forze internazionali.

Forse proprio per questo motivo il rapimento di Moro, e poi la sua uccisione, sono sempre state costellate da numerosi dubbi (suffragati da alcuni indizi) su reali responsabilità, complicità, o semplici accondiscendenze.

Subito dopo il rapimento si ha un frenetico susseguirsi di notizie: dopo poco più di un’ora già un messaggio delle BR chiede entro 48 ore la liberazione dei brigatisti detenuti a Torino, di quelli di Azione rivoluzionaria e dei NAP; a sole due ore dal rapimento la DC ha scelto di respingere qualsiasi ricatto.

Il ministro degli Interni Cossiga costituirà il primo comitato tecnico operativo, che avrà il compito di coordinare le ricerche dei terroristi: solo nel 1981, con la pubblicazione delle liste della P2, si scoprirà che una parte delle persone presenti nel comitato era iscritta alla loggia massonica più potente e misteriosa d’Italia.

Mentre lo Stato cerca di rispondere all’attacco brigatista, in Parlamento si delinea il fronte della fermezza, che sostiene l’inaccettabilità di qualsiasi trattativa, e che vede DC e PCI in prima linea.

Il governo Andreotti ottiene in una sola giornata la fiducia di Camera e Senato, con un dibattito parlamentare ridottissimo, e questo sembra già essere il primo punto a favore dei terroristi, il cui scopo è appunto quello di “strozzare il funzionamento delle istituzioni democratiche”[5].

Il rifiuto di qualunque dialogo diviene intanto sempre più forte, mentre le BR non sembrano disposte ad un rilascio senza condizioni come nel caso Sossi; quello che esse cercano, in realtà, non è tanto la liberazione dei detenuti, quanto piuttosto il riconoscimento politico che deriverebbe da una trattativa ufficiale.

“Ci ponevamo come parte speculare allo Stato e quindi come forza che poteva anche trattare, discutere, o comunque imporre modifiche di comportamento. [...] Ci eravamo intestarditi su questo fatto: avere una presa di posizione ufficiale della Democrazia Cristiana, [...] non davamo credito ad altre possibilità che ci venivano offerte, come la mediazione della Caritas o di Amnesty International.” (Franco Bonisaldi, brigatista)

Ma il fronte della fermezza non si incrina; soprattutto per la DC la strategia dell’intransigenza è l’unica intorno a cui si può raccogliere tutto il partito, in un momento in cui ogni sfaldatura deve essere accuratamente evitata. L’atteggiamento del partito cattolico non cambia nemmeno quando cominciano ad arrivare le lancinanti lettere scritte da Aldo Moro nella sua prigione.

A Francesco Cossiga, ministro dell’Interno:

“Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile [...]. Che Iddio vi illumini per il meglio, evitando che siate impantanati in un doloroso episodio, dal quale potrebbero dipendere molte cose.”

A Benigno Zaccagnini, segretario della DC:

“[...] Possibile che siate tutti d’accordo nel volere la mia morte per una presunta ragione di Stato che qualcuno lividamente vi suggerisce, quasi a soluzione di tutti i problemi del Paese ? Altro che soluzione dei problemi. Se questo crimine fosse perpetrato si aprirebbe una spirale terribile che voi non potreste fronteggiare. Ne sareste travolti. Si aprirebbe una spaccatura con le forze umanitarie che ancora esistono in questo paese. [...] Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese. Pensateci bene, cari amici. [...] Se la pietà prevale, il paese non è finito.”

Neanche gli appelli di Paolo VI sortiscono alcun effetto; e mentre il potere politico è paralizzato, gli apparati di sicurezza del Paese, dalle forze dell’ordine ai servizi segreti, mostrano tutta la loro spaventosa inefficienza, le cui ragioni rimangono tuttora difficili da determinare.

Il 18 aprile giunge un comunicato delle BR, che annuncia l’avvenuta esecuzione dell’on. Moro, il cui corpo potrà essere recuperato nel Lago della Duchessa, in una zona tra il Lazio e l’Abruzzo.

Il comunicato era un falso, cinque anni dopo si scoprirà essere opera di tale Chicchiarelli, falsario legato agli ambienti neofascisti e confidente dei servizi segreti. Lo scopo pare fosse quello di verificare gli effetti della notizia dell’uccisione di Moro sul Paese.

Enrico Fenzi, brigatista:

“Secondo le BR, il comunicato del Lago della Duchessa era un falso del governo, della polizia, insomma del potere ... ed era il segnale chiaro ed inequivocabile che nessuna trattativa era possibile ... che lo Stato non avrebbe mai trattato per Moro.”

Il 9 maggio le BR annunciano l’esecuzione, il corpo verrà ritrovato in via Caetani, una strada che si trova tra piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure, rispettivamente sedi della DC e del PCI.

Moro lascia una specie di testamento, scritto prima dell’esecuzione, estremamente drammatico e lucido insieme:

“[...] Siamo ormai, credo, al momento conclusivo. [...] Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della DC con il suo assurdo e incredibile comportamento. [...] E’ poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall’idea che il parlare mi danneggiasse, o preoccupati dalle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare. [...] Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochissimo: forse ne avrà scrupolo.[...].”

 

 

IL TERRORISMO DOPO MORO

L’uccisione di Aldo Moro fu il culmine dell’attività brigatista, anche se, quando esso avvenne, sembrò poter essere solo il primo atto di una escalation di violenza che avrebbe potuto addirittura condurre ad una guerra civile.

In realtà questo non avvenne, ma il terrorismo continuò a colpire: non solo le BR, cui si affiancò l’organizzazione Prima Linea, ma tornò anche lo stragismo di matrice neofascista.

Ebbe particolare eco, nel ‘79, l’uccisione a Milano del giudice Alessandrini, apprezzato dalla sinistra per la sua indagine su piazza Fontana, ad opera di un commando di Prima Linea guidato da Marco Donat Cattin. Gli attentati continuano, ma inizia anche la controffensiva delle forze dell’ordine: dal 1978 il gen. Dalla Chiesa guida il riorganizzato nucleo specializzato contro il terrorismo.

Nel 1980 vengono uccisi il commissario Albanese a Venezia, e il giornalista del “Corriere della Sera” Walter Tobagi a Milano.

Le BR sono divise in due tronconi, quello militarista di Mario Moretti, e quello movimentista di Giovanni Senzani, entrambi partecipano, il 12 dicembre del 1980, al rapimento del giudice D’Urso, responsabile della organizzazione carceraria. Le BR ripetono la tattica del rapimento Moro, ponendo le condizione per la liberazione. Chiedono la pubblicazione dei loro comunicati, ma la maggior parte della stampa si assume la responsabilità di rifiutare (black-out). Solo l’Espresso pubblica i “verbali” degli interrogatori di D’Urso, che infine verrà rilasciato.

Intanto il 2 agosto 1980 una bomba era esplosa nella sala d’attesa della stazione di Bologna: 85 morti.

Si riparla di terrorismo nero e di servizi segreti, si indaga su Licio Gelli. Sono attualmente in carcere solo i presunti esecutori materiali della strage, “Giusva” Fioravanti e Francesca Mambro, neofascisti, all’epoca giovanissimi.

Nel frattempo, nel 1981, viene arrestato Mario Moretti, forse grazie ad una segnalazione del servizio segreto israeliano (Mossad).

Ma le BR rapiscono ancora Ciro Cirillo, assessore regionale della Campania e leader democristiano; sulla sua liberazione ci sono molte ombre, si parla dell’influenza decisiva del Sismi del gen. Santovito (iscritto alla P2), e della mafia. Gli ultimi sporadici attacchi delle BR risalgono al 1982, lo stesso anno in cui l’uomo simbolo della lotta al terrorismo, il gen. Dalla Chiesa, verrà ucciso dalla mafia (3 settembre), portando certamente con sé alcuni segreti della nostra storia.

 

 

COMBATTENTI O CRIMINALI ?

I terroristi commettono reati politici o azioni criminali ordinarie?

Dalla risposta a questa domanda dipende non solo il giudizio morale che ogni singolo individuo può dare del fenomeno terroristico, ma anche la strategia politica e punitiva che uno Stato decide di adottare.

Gli Stati rifiutano di considerare i terroristi come combattenti di guerra, perché, se di guerra si trattasse, si avrebbe a che fare con una controparte politica, con un potere alternativo a quello istituzionale: e questo farebbe perdere a qualsiasi Stato quella prerogativa di unicità del potere su cui si fonda. Ma d’altra parte è impensabile che uno Stato consideri i terroristi come criminali comuni, perché palesemente non lo sembrano.

Questo problema è molto concreto ed ha diversi risvolti. In Italia il Parlamento varò tra il ‘75 e il ‘77, una serie di leggi “speciali”: è del 21 maggio 1975 l’approvazione della legge Reale, che consentì maggiore autonomia alle forze dell’ordine nelle indagini sui terroristi; essa in realtà nega la libertà provvisoria a chi è indiziato di reati contro l’ordine pubblico, estende i termini della carcerazione preventiva, dà facoltà a polizia e carabinieri di arrestare non solo persone colte in flagranza di reato, ma anche sospettate di stare per commetterlo, e autorizza perquisizioni senza mandato della magistratura.

E’ del 1975 anche la riforma del sistema penitenziario, che si ispira al recupero sociale del detenuto, prevedendo l’affidamento in prova la servizio sociale e la semilibertà; essa contiene però anche un articolo, il 90, secondo cui il ministro di Grazia e Giustizia ha la facoltà di sospendere tali benefici per gravi motivi di ordine. Questa norma verrà applicata, a partire dal 1977, per i detenuti politici, implicando, in pratica, la costituzione di carceri “speciali” o “di massima sicurezza”. Questo insieme di provvedimenti, detti legislazione d’emergenza (tuttora in vigore), è stato avversato dalla parte più garantista del Paese, (ed oggi da più parti se ne chiede la revoca).

Nonostante questa prova di forza da parte del Parlamento italiano, è difficile stabilire chi, tra Stato e anti-Stato, abbia vinto questo braccio di ferro, forse entrambi sono stati in qualche modo perdenti: le BR perché, come scrive Giorgio Bocca, “nella vicenda terroristica c’è un enorme equivoco di partenza: che questo della società tardo industriale, sia uno stato articolato, diciamo un congegno di precisione che si può far saltare, e non l’immane, complessa, pachidermica sovrapposizione di interessi, di ceti, di redditi, di privilegi grandi e piccoli, di favori, di difese, di solidarietà corporative e di gruppo che procede, magari verso la catastrofe, ma inarrestabile.”

Ma perdono anche le istituzioni democratiche, perché, sebbene la vicenda terroristica non abbia provocato quel grande spostamento di consenso elettorale in senso conservatore, come era nelle mire dei servizi segreti, sicuramente però “gli anni della lotta armata hanno avuto conseguenze specifiche sui movimenti collettivi, sul sindacato, e in generale nella classe dirigente della sinistra. In questi settori la colpevolizzazione della sinistra -quale in qualche modo responsabile del terrorismo attraverso l’“album di famiglia” del suo passato ideologico e delle biografie di militanti- ha avuto successo: il movimento sindacale si è fortemente indebolito, i comportamenti collettivi critici si sono fortemente attenuati, si è verificato il cosiddetto “riflusso”, i gruppi dirigenti della sinistra non hanno saputo elaborare una interpretazione dello sviluppo del partito armato che consentisse loro di collocarsi in una posizione non difensiva, ma offensiva sul piano culturale.” (G. Galli)


 

 

PARTE SECONDA

 

I SERVIZI SEGRETI

 

 

IL DOPOGUERRA: NASCONO I MODERNI SERVIZI SEGRETI

Risale al 1863 la creazione del primo ufficio di direzione di attività informativa presso lo Stato Maggiore dell’Esercito (ufficio “I”). Esso aveva il compito di reperire dati sulla zone di interesse militare, per poi raccoglierle in volumetti riservati.

Nell’ottobre del 1925, già istituita ufficialmente la dittatura di Mussolini, il servizio segreto militare fu riformato: nacque il Sim (Servizio informazioni militari), alle dirette dipendenze del capo di stato maggiore.

Nel frattempo, nel 1919, era stata creata la Divisione affari generali e riservati, che nel 1927 venne articolata in tre sezioni: Movimento sovversivo, Ordine pubblico, Stranieri. Dalla prima sezione dipendeva anche l’Ovra, la polizia politica segreta del regime fascista.

Nascono così i servizi segreti in Italia, già separati in una struttura militare e in una civile, ma sarà nel dopoguerra che essi assumeranno nel nostro Paese come nel resto del mondo industrializzato, un’importanza ben maggiore di quella avuta in precedenza.

Per tutto il 1946 e il 1947 i servizi segreti italiani ufficialmente non esistono, sono gli Stati Uniti ad impedire la loro ricostituzione fino a quando non sia certa la collocazione dell’Italia nella sfera occidentale.

Dopo il risultato elettorale del 18 aprile 1948 inizia la loro ristrutturazione: viene nominato il nuovo capo dell’Ufficio informazioni Giovanni Carlo Re, che, insieme al ministro della difesa, Pacciardi, costituì il primo servizio segreto della Repubblica, il Servizio informazioni forze armate (Sifar).

Si sperava nella costituzione di un organo aderente ai princìpi della nuova Costituzione, invece il Sifar ebbe una struttura pressoché identica al Sim.

La guerra fredda accelerò il processo di passaggio dalla polizia segreta ai servizi di informazione e di “sicurezza”, ovvero da una organizzazione molto semplice, che combatte forme circoscritte di contestazione politica come il movimento anarchico, a strutture molto complesse che agiscono in ambiti come lo spionaggio industriale e il traffico internazionale di armi.

In Italia il vero cambiamento avvenne nel 1958: fino a quel momento il perfetto controllo delle classi egemoni su quelle subalterne non aveva fatto sentire la necessità dell’intervento di strutture segrete. Nel ‘58, con lo sgretolarsi degli equilibri centristi, Fernando Tambroni avvertì l’esigenza di creare penetranti strutture di controllo della vita politica; strumento di questo e di altri disegni fu il gen. Giovanni De Lorenzo.

Fu questo il primo segno dell’intrecciarsi di due processi che da quegli anni in poi scorreranno paralleli: da un lato l’allargamento della partecipazione politica, dall’altro l’estensione dei controlli illegali da parte dei servizi di “sicurezza”. Se ne avrà conferma dopo il 1968, quando la spinta a sinistra provocata dal movimento studentesco e dall’autunno caldo, convinse i responsabili delle strutture segrete della necessità di un’azione più incisiva, che sembra abbia contemplato al suo interno anche le stragi.

 

 

I SERVIZI “DEVIATI”

L’espressione servizi deviati viene usata per indicare persone o settori dei servizi segreti che avrebbero compiuto azioni illegali per fini diversi dalla salvaguardia delle istituzioni democratiche. Ma, mentre nelle dichiarazioni ufficiali si è sempre tenuto a sottolineare l’episodicità di avvenimenti di questo tipo, il lungo arco di tempo costellato da fatti poco chiari e l’elevato numero di persone coinvolte fanno sorgere legittimamente il sospetto che un certo tipo di “deviazioni” facessero parte di una strategia politica complessiva, più che essere opera di singoli che avrebbero agito per scopi privati. Dal dopoguerra in poi l’attività dei nostri servizi segreti è sempre stata legata a doppio filo a quella dei servizi statunitensi (CIA), è quindi necessario osservarle parallelamente per tentare di trovare il filo conduttore che lega molti dei misteri rimasti irrisolti dell’ultimo cinquantennio italiano.

Con l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, le vicende politiche del nostro paese sono state sempre tenute sotto controllo dalla Nato, struttura tesa a conservare lo status quo politico dei paesi aderenti.

L’Italia ha inoltre sempre occupato una posizione strategica nell’area occidentale, per la sua vicinanza tanto all’Est comunista (si pensi alla Jugoslavia di Tito) quanto al mondo arabo; essa possedeva inoltre il più forte partito comunista tra i paesi del Patto Atlantico.

Non a caso dunque gli Stati Uniti, già da prima delle elezioni dell’aprile ‘48, programmarono un piano d’intervento militare, con l’occupazione della Sicilia e della Sardegna, in caso non solo d’invasione da parte degli eserciti comunisti, ma anche di vittoria elettorale del PCI. I documenti comprovanti questi piani d’intervento (ovvero il “National Security Council” 1/3, dell’8 marzo 1948 e del 5 gennaio 1951) sono ora consultabili, tranne però nei punti più delicati e importanti, tuttora coperti da segreto di Stato.

Dopo la vittoria dei moderati alle elezioni del ‘48, ed alcune probabili rassicurazioni fornite dal presidente del Consiglio De Gasperi, gli accordi tra Italia e USA sono diventati più sottilmente invasivi, e le strategie più politiche che militari.

Dalla fine degli anni ‘50, ad esempio, si comincia ad usare in maniera massiccia lo strumento della “schedatura” delle personalità politiche, economiche e sindacali del Paese: noti (anche dalla CIA) sono i fascicoli Scelba-Tambroni, che su consiglio del ministro Andreotti furono archiviati in una sezione speciale del SIFAR in modo da rimanere quanto necessario segreti.

Ma una vera e propria opera di schedatura generalizzata fu avviata dal gen. De Lorenzo che, nominato capo del Sifar nel 1955 su sollecitazione del presidente della Repubblica Gronchi, sarà per molti anni il protagonista delle pagine più torbide e misteriose della storia del “Belpaese”. Rimase alla guida del Sifar per quasi sette anni, il periodo più lungo di permanenza di una stessa persona a capo del servizio segreto, non casualmente coinciso con il settenato presidenziale di Gronchi.

Recentemente l’apertura di parti degli archivi segreti statunitensi ha permesso di fare almeno parzialmente “chiarezza” sui primi anni della gestione De Lorenzo: sembra che egli avesse preso “concreti impegni con i servizi segreti americani, ufficialmente all’insaputa dello stesso governo italiano, per diminuire con ogni mezzo il potere del partito comunista.” (G. De Lutiis)

Agli stessi anni risale l’installazione di microfoni nella stanza del Quirinale e nella biblioteca del Vaticano per registrare i colloqui privati del Presidente della Repubblica e del Papa.

La schedatura verrà usata per molti anni, e in maniera così massiccia da costituire una delle attività in cui i servizi segreti occupano la maggior parte delle loro energie. Nel corso degli anni ne vanno mutando però le caratteristiche, che assumono contorni sempre più inquietanti: le notizie riportate cominciano ad essere sempre in maniera maggiore riferite alla sfera privata delle persone schedate, inoltre, mentre nei primi anni i documenti recavano tutti l’indicazione della fonte, successivamente vennero resi anonimi, in maniera tale da non poter risalire all’ufficio che li aveva diramati.

Per avere un’idea di quanto in quel periodo ogni norma riguardante il Sifar fosse violabile e violata, basti pensare che nel ‘61 De Lorenzo fu promosso generale di corpo d’armata e, sebbene statutariamente avrebbe dovuto lasciare l’incarico presso i servizi segreti, vi restò fino al ‘62, fino a quando cioè esso non fu ricoperto da Viggiani, un suo fedelissimo, per la nomina del quale non si esitò a falsificare alcuni documenti che avrebbero altrimenti dimostrato la sua non idoneità. Inoltre quando De Lorenzo fu nominato comandante dell’arma dei Carabinieri, oltre l’80% dell’organico dei servizi era composto da carabinieri.

Intanto il centrosinistra diventa una prospettiva politica reale, anche appoggiata dal presidente degli Stati Uniti Kennedy, ma fortemente ostacolata dai servizi americani.

Non era più possibile, però, pensare a un tipo di controffensiva consueta, le tecniche dovevano essere affinate, e il rappresentante di questo “nuovo corso”  in Italia fu il gen. Aloja. Nominato capo di stato maggiore dell’esercito nel ‘65, era esponente dell’area più strettamente atlantica delle forze armate. Lo scontro con De Lorenzo si profilava come inevitabile: essi erano infatti i portatori di due concezioni profondamente divergenti sulle modalità di condurre una guerra contro il pericolo rosso in Italia.

Mentre De Lorenzo era convinto che a questo scopo fosse necessario semplicemente un valido servizio segreto appoggiato da una ridotta forza militare, Aloja era sostenitore di una nuova visione del rapporto tra guerra e pace, in cui i confini tra le due erano destinati ad assottigliarsi progressivamente, in vista di un nuovo tipo di guerra, la cosiddetta guerra psicologica, che avrebbe richiesto un diverso tipo di preparazione delle truppe, un addestramento anche ideologico.

Il periodo della strategia della tensione in Italia seguirà di poco questi anni e dimostrerà come la natura degli scontri all’interno dello Stato fosse radicalmente mutata come “profetizzato” da Aloja.

Intanto nel 1967 esplose il caso del tentativo di colpo di stato ordito da De Lorenzo nel ‘64, il piano Solo. Dopo due anni di battaglie parlamentari, nel marzo ‘69 venne costituita una commissione d’inchiesta che indagasse sullo scandalo. L’accaduto andava trattato con estrema delicatezza, e la posta in gioco era sicuramente molto alta: la relazione conclusiva apparve timida sul piano dell’attribuzione delle responsabilità ma avanzò proposte concrete per una riforma dei servizi segreti e per una drastica riduzione dei fascicoli segreti. La riforma dovrà aspettare però il ‘77 prima di essere attuata, e i fascicoli verranno bruciati solo dopo tre anni, e soprattutto dopo essere stati in gran parte fotocopiati.

Già nel ‘66, con la fine del Sifar e la nascita del Sid (Servizio informazioni difesa), si era sperato in un cambiamento nella gestione dei servizi, affidata ora ad Eugenio Henke, ma gli avvenimenti degli anni successivi lasciarono chiaramente intendere la vanità di questa speranza. Il Sid nacque infatti da un lato senza una previa discussione parlamentare su struttura, compiti e limiti, dall’altro senza che ci fosse il minimo spostamento degli uomini che erano stati nel Sifar.

Henke fu colui che più di tutti si animò perché gli scandali della gestione De Lorenzo divenissero pubblici, ma si trattò, come lo definisce De Lutiis, di una destabilizzazione controllata, gestita in modo tale da emarginare gli uomini di De Lorenzo, ma di non coinvolgere quelle parti del potere politico cui lo stesso De Lorenzo si era appoggiato.

L’ufficio “D” (sezione rilevante dei servizi) passa intanto, nel ‘68, nelle mani del colonnello Federico Gasca Queirazza, che aveva inquietanti contatti con la destra neofascista, come dimostra un interrogatorio di Guido Giannettini, elemento di spicco della destra eversiva, in cui egli dichiara di aver inviato, nel maggio del ‘69, un rapporto all’ufficio “D” in cui si preannunciava che bande autonome neofasciste avrebbero compiuto attentati in luoghi chiusi; non si capisce né perché Giannettini avrebbe dovuto rivelare un progetto così compromettente, né perché questo non sia pervenuto dall’ufficio “D” alla magistratura.

Ma le ombre più pesanti si addenseranno sui servizi segreti dopo la strage di piazza Fontana, quando saranno al centro di grosse polemiche per i contatti con la destra eversiva, e per gli inquinamenti e le omissioni riguardo alle indagini sulla strage stessa.

Nel 1970 il comando dei servizi passa dalle mani di Henke a quelle di Vito Miceli, che a soli due mesi dalla sua nomina è fortemente sospettato di un avvenimento grave come la copertura offerta ai congiurati del golpe Borghese (7 dicembre 1970). Tra il ‘71 e il ‘74 si avalla, sia da parte della stampa sia da parte della magistratura romana, la tesi che il tentato colpo di Stato sia opera di un gruppo di velleitari nostalgici senza seri collegamenti, così l’istruttoria viene praticamente insabbiata. Solo nel ‘75, dopo l’allontanamento di Miceli dal servizio, arriveranno nelle mani della magistratura importanti prove fino ad allora rimaste nelle mani del Sid.

Il lato più oscuro di quella vicenda, la cosiddetta notte dell’Immacolata, è che ai congiurati arrivò immediato e inatteso l’ordine di ritirarsi, ma non si sa da chi e perché, segno che anche Borghese stesso era stato scavalcato e che le motivazioni reali dell’azione si celavano alle spalle anche di chi vi partecipò. La commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2 ha raccolto alcuni indizi che farebbero pensare alla presenza di Licio Gelli, oscura figura di massone, dietro questa decisione, ma è anche provato che Gelli in quel periodo avesse forti contatti con i servizi segreti.

Il tentato golpe Borghese è l’ultimo episodio di conclamato attacco alle istituzioni dello Stato in vista di una possibile presa del potere: d’ora in poi, sarà sempre più sottile la demarcazione tra legalità e illegalità, e a tentativi di presa del potere in prima persona si sostituiranno appoggi a gruppi di potere (non solo politici e non solo italiani) tesi a garantire un favorevole immobilismo dello Stato.

Si comincia così, dal ‘72 in poi, a parlare di servizi paralleli, di organizzazioni segrete più o meno legali, in cui l’attività eversiva si svolge in termini di questa nuova guerra chiamata guerra psicologica.

Una delle più note organizzazioni di questa natura fu certamente La rosa dei venti, probabilmente emanazione di un servizio segreto sovrannazionale della Nato, e sicuramente legata a doppio filo con il servizio italiano.

Una parte delle notizie pervenuteci sulla struttura e l’attività di questi nuovi gruppi eversivi, viene dalle dichiarazioni rese ai magistrati da Roberto Cavallaro, un personaggio dall’oscuro passato, che nel 1974 “parlò dell’esistenza di una organizzazione parallela e spiegò che essa non era da identificarsi con la Rosa dei venti. A proposito della struttura dell’”organizzazione” egli confermò che nel gruppo dirigente erano servizi segreti italiani e americani, ma anche alcune potenti società multinazionali. Essa gestiva, attraverso intermediari, i gruppi terroristici. La finalità non era un colpo di Stato ma una strategia del disordine e del terrore che giustificasse un intervento volto a ristabilire l’ordine. Alla domanda circa l’epoca nella quale l’“organizzazione” avesse cominciato ad operare, Cavallaro rispose facendo riferimento al 1964, dopo l’abbandono del “piano Solo” del generale De Lorenzo...” (De Lutiis).

Si parla quindi di organismi per un certo verso istituzionali, perché previsti da protocolli ufficiali, anche se segreti, dell’alleanza atlantica, ma che d’altra parte coordinavano l’attività di gruppi eversivi come a Rosa dei venti; generalmente questi organismi venivano detti organismi di sicurezza.

Queste strutture che si beneficiavano di arruolamenti tanto di militari quanto di civili, erano spesso volte ad impedire la conquista delle leve effettive dello Stato da parte delle sinistre, in nome di una guerra sempre in corso tra il mondo capitalista e quello comunista, nella quale ogni mezzo poteva considerarsi lecito.

Una svolta sembrò avvenire nel 1974, quando il giudice Tamburino da Padova spedì al capo del Sid Miceli un avviso di reato per cospirazione politica, e il 31 ottobre spiccò mandato di cattura. Questo evento, insieme alle inchieste dei magistrati D’Ambrosio a Milano e Violante[6] a Torino, accese grandi speranze, che però furono disattese in meno di due mesi. L’istruttoria venne infatti trasferita da Padova a Roma dove venne unificata a quella sul golpe Borghese: il quadro cospirativo che Tamburino stava scoprendo venne frantumato in singoli episodi di cui non si volle vedere la connessione, e l’istruttoria fu rapidamente insabbiata.

Miceli comunque non smentì mai l’esistenza di una struttura segreta che operava alle spalle degli stessi servizi, sulla quale però non fornì alcuna informazione a causa del segreto politico militare che la copriva, dichiarandosi però pronto ad una deposizione nel caso in cui questo fosse caduto.

L’autorizzazione del governo non arrivò mai, e Miceli fu scarcerato.

Da una deposizione di Miceli resa al giudice Antonio Abate nel 1977 durante il processo sul golpe Borghese:

“Lei in sostanza vuole sapere se esiste un organismo segretissimo nell’ambito del Sid. [...] C’è, ed è sempre esistita, una particolare organizzazione segretissima, che è a conoscenza anche delle massime autorità dello Stato. [...] Si tratta di un organismo inserito nell’ambito del Sid, comunque svincolato dalla catena di ufficiali appartenenti al servizio “I”, che assolve compiti pienamente istituzionali; anche se si tratta di attività ben lontana dalla ricerca informativa. Se mi chiedete dettagli particolareggiati, dico: non posso rispondere. Chiedeteli alle massime autorità dello Stato, in modo che possa esservi un chiarimento definitivo”.

Resta da vedere se il fatto che l’organizzazione svolgesse compiti pienamente istituzionali, noti alle massime autorità dello Stato, ridimensioni la gravità dell’esistenza di questa struttura, o se piuttosto non la accresca il fatto che rientrasse tra i compiti pienamente istituzionali un’attività ben lontana dalla ricerca informativa.

Il Sid parallelo dunque esiste, anche se ovviamente non compare in nessun archivio ufficiale. Il suo compito sarebbe di natura operativa, volto cioè ad evitare una possibile gravitazione dell’Italia nell’area del Patto di Varsavia.

Venivano così presumibilmente stilati elenchi di persone sicuramente fedeli alle istituzioni, con prevalenza di medici e di infermieri (indispensabili in caso di insurrezione). La maggior parte di queste persone probabilmente non avrebbero saputo mai di essere in questi elenchi se non in caso di convocazione.

“È una interpretazione assolutamente legalistica che, che tuttavia ci conferma l’esistenza di programmi di intervento che nessun governo ha varato, che nessun parlamento ha esaminato, e che scavalcano gli stessi organismi preposti, cioè prefetti, questori e comandi militari territoriali. C’è poi una considerazione da fare: se realmente questo organismo fosse destinato a difendere le istituzioni da insurrezioni armate o in caso d’invasione, non ci sarebbe motivo di nasconderlo dietro il massimo livello di segretezza” (De Lutiis).

Quello che è probabile è che esso sia stato utilizzato dalla Nato per arginare l’ascesa elettorale delle sinistre negli anni ‘60. La strada del colpo di Stato era ormai impraticabile, per cui era necessario cambiare tattica e vi sono buone ragioni per ritenere che in questa nuova sia rientrata almeno parte della strategia della tensione in Italia. Risale a questi anni l’attività svolta nella base militare di Capo Marrargiu: essa era una base Nato situata nei pressi di Alghero e inaccessibile via terra, utilizzata per addestramenti segreti di militari e civili.

 

 

I SEVIZI SEGRETI E IL TERRORISMO “ROSSO”

Alcune inchieste giornalistiche di quegli anni (intorno al 1976) parlarono di Capo Marargiu come di un campo in cui venivano addestrati eversori, per lo più di estrema destra, ma anche di estrema sinistra e terroristi arabi.

Ma nel 1975 si ha una svolta: il terrorismo cambia colore.

Esplodono le BR, che sono un fenomeno troppo complesso per essere spiegato esclusivamente in termini di infiltrazione da parte dei servizi segreti, ma che comunque ha in sé molti lati oscuri, soprattutto se si tiene presente che nel 1974 Miceli aveva dichiarato in una interrogatorio dinanzi al giudice Tamburino: “Ora non sentirete più parlare del terrorismo nero, ma sentirete parlare soltanto di quegli altri.”

Il primo sentore di una mancanza di limpidezza nell’azione delle BR risale al 1974, al sequestro del giudice Sossi. Diversi aspetti di questa vicenda hanno dato adito a perplessità: l’improvviso rilascio, il fatto che Sossi, liberato a Milano, non si sia rivolto subito alle autorità, ma abbia raggiunto in incognito la sua abitazione di Genova, chiedendo solo lì la protezione della Guardia di Finanza, e in ultimo la dichiarazione di un anonimo ufficiale del Sid rilasciata al settimanale “Tempo” nel ‘76, e comunque mai confermata, in cui si fa riferimento ad un progetto di organizzare un conflitto a fuoco intorno al covo dove era custodito Sossi, che avrebbe eliminato i brigatisti e lo stesso Sossi.

Sempre nel ‘74, l’8 settembre, esattamente un giorno dopo la dichiarazione di Miceli che preavvertiva che da allora in poi si sarebbe sentito “parlare soltanto di quegli altri”, vengono arrestati Curcio e Franceschini, grazie al prezioso contributo di Silvano Girotto, uomo dei servizi infiltrato nell’organizzazione. Solo che questo arresto invece di scompaginare le BR, darà avvio alle loro azioni più sanguinose.

Presumibilmente se la permanenza di Girotto nelle BR fosse stata più lunga (l’operazione durò due mesi in tutto), avrebbe permesso di frantumare totalmente la struttura terroristica, ma forse l’obiettivo da raggiungere era solo quello di isolare la vecchia guardia. Al termine dell’operazione Girotto fu trasferito dal Sid in una località segreta in Arabia Saudita; prima di partire, però, lasciò al giudice istruttore una testimonianza a futura memoria, in cui si leggono informazioni molto gravi come: “Curcio mi disse che c’era l’intenzione di giustiziare Sossi, ma poi le BR [...] avevano saputo da una fonte sicura del Ministero dell’Interno che i carabinieri avevano avuto l’ordine di uccidere tutti, anche Sossi”[7].

Nel 1976 le BR uccidono per la prima volta, la vittima è il procuratore generale di Genova Coco.

Il fatto che l’uccisione precedesse di soli dodici giorni le elezioni politiche, sembrò una sospetta concomitanza, soprattutto perché per quelle elezioni si paventava il sorpasso della DC da parte del PCI, e l’omicidio parse volto a spaventare l’elettorato moderato.

Peraltro negli stessi anni (‘75-’76) in cui avvenne la metamorfosi delle BR, in Spagna si sviluppò un gruppo terroristico “rosso” che, si sarebbe scoperto dopo, era invece pilotato dall’ex capo della polizia politica franchista Roberto Conesa.

 

LA RIFORMA DEL ‘77

Il 24 ottobre 1977 viene finalmente varata la riforma dei servizi segreti.

Essa manifesta lo sforzo compiuto dal Parlamento per conciliare le esigenze di un sevizio segreto e i diritti di controllo propri di uno Stato democratico.

Per la prima volta consistenti cambiamenti sono operati anche da un punto di vista strettamente giuridico: la sola autorità responsabile del funzionamento dei servizi è il presidente del Consiglio dei Ministri, affiancato dalla consulenza di un Comitato esecutivo per i servizi di informazione e di sicurezza (Cesis), da lui stesso presieduto; il presidente del Consiglio nomina inoltre il segretario del Cesis, che ha il compito di coordinare l’attività dei due servizi segreti: il Servizio per le informazioni e la sicurezza militare (Sismi) e il Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (Sisde). Il Cesis ha inoltre funzione di raccordo con le forze armate e con i servizi stranieri.

Muta profondamente anche la disciplina del segreto di Stato:

“I pubblici ufficiali, gli impiegati e gli incaricati di pubblico servizio conservano l’obbligo di astenersi dal disporre su quanto coperto da segreto di Stato, ma se l’autorità dinanzi alla quale dovrebbero testimoniare non ritiene fondato questo comportamento, ha diritto di interpellare il presidente del Consiglio. Se quest’ultimo non conferma la dichiarazione di segreto, i pubblici ufficiali sono obbligati a deporre. Se invece egli conferma il segreto, ne deve dare comunicazione alle Camere con relativa motivazione e al Comitato parlamentare, al quale deve indicare anche le ragioni essenziali” (De Lutiis).

La nuova normativa era certamente molto avanzata, anche rispetto alla legislazione in materia degli altri Paesi.

Ma già nei mesi immediatamente successivi, con la nomina dei dirigenti dei due servizi, andò impallidendo l’idilliaco scenario prospettato dalla legge di riforma.

Si manifestò prima di tutto l’opposizione dei dirigenti dell’ex Sid, a cedere archivi e attrezzature al nuovo Sisde; inoltre a capo del Sismi fu nominato il gen. Giuseppe Santovito, che era stato stretto collaboratore del gen. De Lorenzo e che comparirà nelle liste della P2, e a capo del Sisde il gen. Giulio Grassini, un altro militare dunque, e per di più di grado inferiore a Santovito. Si delineò così quella subalternità del Sisde al Sismi che durerà per anni.

Ritardi nell’insediamento fecero sì che dal 13 gennaio (giorno della nomina di Grassini) al 27 giugno 1978, il Sisde fosse praticamente inesistente: in quel periodo si sviluppò la tragedia del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro.

In una sensazionale intervista pubblicata sul quotidiano “La Repubblica” il 19 maggio 1978, un anonimo (ma la cui identità si dice essere ben conosciuta dalla direzione del giornale) dirigente del Sismi dichiara:

“Abbiamo lavorato sulle lettere che Aldo Moro ha scritto dalla prigionia. [...] Abbiamo raggiunto la prova che [...] Aldo Moro ha fatto numerose e gravi rivelazioni ai suoi carcerieri a proposito di uomini, cose e situazioni, sia di carattere politico sia di carattere militare. [...] Comunque l’esecutivo è stato informato. [...] I responsabili della sicurezza atlantica sanno che Aldo Moro era a conoscenza di importanti segreti. [...] I paesi dell’Alleanza sono in grave allarme. E’ in discussione un riesame della posizione stessa dell’Italia nell’Alleanza.”

“Voi pesate che con le BR agiscano servizi segreti stranieri ?”

“Noi lo abbiamo sempre sostenuto. Ci replicano che le nuove BR non sono più le vecchie: ma a maggior ragione! E non parliamo [...] delle possibili convergenze di interessi stranieri diametralmente opposti, ma con il comune obbiettivo di tenere i comunisti italiani fuori dai piedi.”

Dopo la riforma, quindi, la situazione dei servizi era innanzi tutto di forte squilibrio di personale e di attrezzature tra un Sismi che avrebbe dovuto vigilare contro improbabili attacchi alla nostra integrità territoriale, e un Sisde inadeguato nei confronti di un attacco allo Stato tanto reale quanto pericoloso come il terrorismo. A ciò vanno sicuramente aggiunte le implacate polemiche sulla mancanza di trasparenza. Il problema che si sperava risolto con la riforma, si ripresentò in forma di un vero e proprio scandalo nella primavera del 1981, quando una perquisizione nella villa di Licio Gelli portò al ritrovamento di ingente materiale d’archivio, tra cui alcuni elenchi di iscritti alla loggia P2.

Quello della P2 è uno dei misteri più fitti che attraversano questi anni (formalmente dal 1966), emergendo di tanto in tanto come uno dei più forti e più oscuri centri di potere del Paese, ma senza che se ne riesca a costruire un quadro completo riguardo a uomini e attività.

I sequestri effettuati nel 1981 mostrano come la P2 fosse probabilmente anche la copertura di un nucleo di potere interno al servizio segreto ufficiale: nelle liste comunque vengono trovati i nomi di molte tra le più alte cariche dei servizi (sia “vecchi” sia “nuovi”) e delle forze dell’ordine.

Sembra che dopo il ‘77 la P2 si fosse trasformata in una sede di raccordo delle strutture parallele che gestivano il potere reale in Italia. Nel frattempo la figlia di Gelli era stata arrestata all’aeroporto di Fiumicino con una valigia contenente vari documenti riservati, alcuni dei quali dimostravano l’utilizzazione dei servizi segreti per fini politici di parte, anche dopo il ‘77.

Questa evidente compenetrazione tra una organizzazione segreta e i più delicati organi di sicurezza, chiedeva una improrogabile decisione politica: il 18 luglio dello stesso anno, infatti, il Consiglio dei Ministri varava una gigantesca epurazione degli organi militari.

I servizi segreti ripresero vitalità, e riuscirono a portare a termine dei duri attacchi contro organizzazioni terroristiche, annullandone praticamente l’attività.

 

GLI ANNI OTTANTA E GLADIO

Il 19 ottobre 1984 scattano le manette ai polsi del gen. Pietro Musumeci, ex capo dell’ufficio controllo e sicurezza del Sismi, e di altri funzionari o ex funzionari del Sismi: le accuse, gravissime, sono di associazione a delinquere, peculato, favoreggiamento personale, interesse privato in atti di ufficio e detenzione di armi ed esplosivi.

Nella sentenza, emessa nel luglio del 1985, si legge: “[...] si era formato un centro di potere arbitrario e occulto, comprendente più persone, alcune organicamente inserite nel Servizio ed altre esterne ad esso, ma tra loro unite dall’intesa programmatica di abusare del Servizio stesso per conseguire finalità improprie ed incompatibili con quelle istituzionali.”

Nel 1986 tutti gli imputati vengono assolti in Appello dall’associazione a delinquere, e condannati solo per reati minori.

In questi anni torna come oggetto di polemiche il segreto di Stato: esso era stato infatti opposto a rivelazioni riguardanti alcune indagini su estremisti di destra accusati di strage.

Questo episodio fu il segno di una continuità d’atteggiamento da parte dei Servizi, anche dopo la fine delle gestione piduista, continuità rivelata anche dai sistematici tentativi di depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna dell’agosto 1980.

Questo persistere di polemiche e scandali nonostante rilevanti ricambi di regole e uomini, fanno apparire insostenibile la tesi della semplice presenza all’interno del Servizio di “traditori” dediti ad attività “devianti” per loro interesse personale, soprattutto se si pone attenzione al fatto che tutte le presunte “deviazioni” avvenute dal ‘59 in poi hanno avuto come protagonisti le principali cariche del servizio segreto.

Un altro episodio di questi anni mai chiarito è la strage di Ustica, del DC9 inabissatosi il 27 giugno 1980.

In questa circostanza sono gli uomini dell’Aeronautica Militare ad essere coinvolti, con omissioni e depistaggi, e con l’avanzamento di ipotesi palesemente false, come quella di un cedimento strutturale dell’aereo.

Quale segreto irriferibile si nasconde dietro questo comportamento dell’Aeronautica? L’ipotesi che pare oggi più accreditata coinvolgerebbe un paese amico e alleato, autore di un errore di bersaglio, ma nulla di più si sa sulla sciagura.

Nell’ottobre del 1990 un evento almeno in apparenza fortuito fa ritornare alla ribalta il caso Moro: in via Montenevoso a Milano, nel corso della ristrutturazione di un appartamento che era stato covo delle BR, vengono ritrovati documenti, armi e denaro risalenti al periodo del sequestro Moro. La prima domanda è da chi e quando quel materiale fosse stato collocato dietro quel pannello di gesso, e da chi e perché fosse stato fatto ritrovare.

“Un fatto è certo: la parte di documentazione trovata in via Montenevoso nell’ottobre 1990 non pare espunta a caso dal resto dei documenti di Moro. Vi sono riferimenti molto critici a faccende molto delicate, quali i finanziamenti della CIA alla Democrazia Cristiana, i numerosi scandali che scossero l’Italia negli anni ‘70 e, non ultimo, un accenno abbastanza esplicito alla struttura occulta della NATO” (De Lutiis).

Ma l’eco suscitata dal ritrovamento dei documenti si spense subito per il sopraggiungere di un nuovo terremoto sulla storia delle istituzioni italiane.

Il 18 ottobre 1990, infatti, il presidente del Consiglio Andreotti invia al Presidente della Commissione parlamentare sulle stragi un documento dal titolo “Le reti clandestine a livello internazionale”.

Nella relazione si parla di forme non convenzionali di difesa ipotizzate dalle nazioni occidentali dopo la seconda guerra mondiale in caso di occupazione nemica; queste prevedevano una rete occulta di resistenza, creata in Italia nel novembre 1956 tramite un accordo tra il Sifar e il servizio segreto americano.

Il nome di questa rete italiana era GLADIO, e comprendeva nuclei informativi, di sabotaggio, di propaganda e di guerriglia.

Per la prima volta un presidente del Consiglio affermava l’esistenza di una articolata struttura parallela ai servizi segreti.

Pochi giorni dopo entra in circolazione un’altra stesura del documento, purgata di alcuni importanti riferimenti alla CIA, e con tutti i tempi verbali trasposti dal presente al passato. Non è chiaro se questi “ritocchi” siano stati compiuti per iniziativa del presidente della Commissione stragi Gualtieri, o dallo stesso presidente Andreotti.

Da questo momento in poi le dichiarazioni si succedono con rapidità inusitata, illuminando risvolti sempre più impensabili: il 24 ottobre Andreotti alla Camera dichiara che la struttura occulta esiste tuttora; il 27 ottobre il presidente della Repubblica Cossiga da Edimburgo conferma di aver avuto un ruolo di primo piano nella gestione della struttura dalla fine degli anni sessanta, e aggiunge: “[...] Considero un grande privilegio [...] il fatto di essere stato prescelto per questo delicato compito. E devo dire che sono ammirato dal fatto che il segreto sia stato mantenuto per quarantacinque anni”[8].

Qualunque sia stato il ruolo preciso di Gladio, rimane segno gravissimo che al Parlamento sia stato sottratto l’esercizio delle proprie funzioni fondamentali in una materia tanto delicata e di così grande rilievo internazionale.

Inoltre sembra probabile che la struttura non sia entrata in funzione esclusivamente per scongiurare invasioni nemiche, ma, a detta di un ufficiale del Sifar, “anche rispetto a moti di piazza rilevanti”[9].

Il 29 novembre il capo di Stato Maggiore del Sismi, generale Paolo Inzerilli, dichiara di aver ricevuto una nota del Ministero della Difesa che, su disposizione del presidente del Consiglio, ordina di sciogliere la struttura Gladio.

Questo non impedirà di scoprire, però, almeno una parte del ruolo giocato da Gladio, come la sua connessione con il piano Solo; (cfr. la relazione del presidente della Commissione stragi Gualtieri del 13/12/90).

 

 

CONCLUSIONI

 

Sembra essere questo l’ultimo (in ordine temporale) tassello di quanto è finora noto di una trama operante al di sotto delle istituzioni democratiche e costituente uno dei maggiori centri di potere in Italia.

La quantità straordinaria di “deviazioni” presente nel servizio segreto italiano rispetto a quelli degli altri Paesi, sembra trovare le sue ragioni, dunque, in un distorto meccanismo secondo il quale gli uomini dei servizi si trovano a dover compiere un doppio, e spesso contraddittorio giuramento di fedeltà: alla Repubblica Italiana e a servizi militari internazionali.

Così conclude Giuseppe De Lutiis il suo diluviale libro sulla storia dei servizi segreti in Italia: “A questo punto è forse il caso di chiedersi quale sia la funzione dei servizi segreti in una società democratica: sono destinati a svolgere sempre e soltanto azioni devianti o esiste un loro spazio in difesa della legalità? Un esecutivo maggiormente consapevole dei propri doveri di controllo sarebbe sufficiente ad impedire la possibilità di “deviazioni” o le caratteristiche materiali, fisiologiche di questi organismi li portano inevitabilmente a sfuggire al controllo dei rispettivi governi? Ciò che noi chiamiamo deviazione, è tale anche dal punto di vista del servizio? [...] Dopo aver esaminato la loro attività prevalente nell’ultimo mezzo secolo si potrebbe porre il problema se non sia per caso opportuno abolire più che riformare un organismo che ha fornito prove così tangibili di infedeltà alla Costituzione repubblicana.

Questa però è soltanto una esercitazione teorica nel mondo del futuribile. Non è pensabile che uno Stato possa fare a meno dei servizi segreti proprio in un periodo storico nel quale essi sono andati acquisendo sempre maggiore importanza. I servizi sono, insomma, un male inevitabile. Non solo, ma è utopistico pensare a degli organismi che agiscano con sistemi assolutamente legali, poiché questo li trasformerebbe in inutili doppioni della polizia. (...) La vera chiave per contenere il prepotere dei servizi è forse una più precisa delimitazione del segreto di Stato. (...) Negli anni sessanta e settanta in Italia, il segreto è servito a coprire gravi compromissioni e, a volte, autentiche complicità.”

 

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CRONOLOGIA

 

- 27 DICEMBRE 1955: il gen. De Lorenzo viene nominato capo del Sifar.

- FEBBRAIO 1962: primo governo di centro-sinistra

- 14 LUGLIO 1964: data programmata per il compimento del piano Solo.

- NOVEMBRE 1965: il Sifar si trasforma in Sid.

- 1966: nasce la loggia massonica P2, con a capo Licio Gelli.

- 12 DICEMBRE 1969: strage di piazza Fontana a Milano.

- 15 DICEMBRE 1969: Giuseppe Pinelli precipita dal quarto piano della questura di Milano e muore.

- 16 APRILE 1970: i Gap (il primo gruppo di sinistra a propugnare la lotta armata) si inseriscono nel circuito RAI-TV, facendo il primo comunicato pubblico.

- OTTOBRE 1970: il gen. Vito Miceli viene nominato capo del Sid.

- 7 DICEMBRE 1970: tentato golpe Borghese.

- 14 MAGGIO 1972: muore l’editore Giangiacomo Feltrinelli sistemando             una carica di esplosivo.

- 17 MAGGIO 1972: omicidio Calabresi.

- 31 MAGGIO 1972: strage di Peteano.

- 17 MAGGIO 1973: strage di via Fatebenefratelli a Milano.

- 18 APRILE 1974: rapimento Sossi.

- 12 MAGGIO 1974: referendum sul divorzio.

- 28 MAGGIO 1974: strage di piazza della Loggia a Brescia.

- 4 AGOSTO 1974: strage sul treno Italicus.

- 8 SETTEMBRE 1974: arresto di Curcio e Franceschini.

- 31 OTTOBRE 1974: arresto del gen. Vito Miceli.

- 18 FEBBRAIO 1975: Renato Curcio evade dal carcere di Casale Monferrato.

- 5 GIUGNO 1975: Mara Cagol rimane uccisa in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Qualche tempo dopo viene arrestato definitivamente Renato Curcio.

- 8 GIUGNO 1976: le BR uccidono il procuratore Francesco Coco.

- 24 OTTOBRE 1977: viene varata la legge di riforma dei sevizi segreti.

- 8 MARZO 1978: si apre a Torino il processo contro le BR.

- 16 MARZO 1978: le BR rapiscono Aldo Moro.

- 9 MAGGIO 1978: Moro viene ucciso.

- 7 APRILE 1979: si apre il processo contro Autonomia Operaia.

- 27 GIUGNO 1980: strage di Ustica.

- 2 AGOSTO 1980: strage di Bologna.

- 17 MARZO 1981: le liste degli iscritti alla P2 vengono sequestrate nella villa di Gelli e rese pubbliche.

- 13 MAGGIO 1981: attentato al Papa Giovanni Paolo II ad opera di Ali Agca.

- 23 DICEMBRE 1984: bomba sul “rapido 904”, la strage di Natale.

- 18 OTTOBRE 1990: Andreotti parla per la prima volta, in una relazione al presidente della commissione stragi, di GLADIO.

 

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BIBLIOGRAFIA

 

- AA.VV., “La strage di Stato”, Roma 1970

- G.Bocca, “Il terrorismo italiano 1970-1978”, Milano 1978

- P.Craveri, “La Repubblica dal 1958 al 1992”, Milano 1996

- D.Della Porta (a cura di), “Il terrorismo di sinistra”, Bologna 1990

- G.De Lutiis, “Storia dei servizi segreti in Italia”, Roma 1991

- G.De Lutiis, “Il lato oscuro del potere. Associazioni politiche e strutture paramilitari segrete dal ‘46 ad oggi”, Roma 1996

- S.Flamigni, “La tela del ragno. Il delitto Moro”, Roma 1988

- G.Galli, “Storia del partito armato 1968-1982”, Milano1986

- G.P.Testa, “Storia dell’Italia delle stragi”, suppl. n°30 di “Avvenimenti”, 1993

- S.Zavoli, “La notte della Repubblica”, Milano 1992

 

 

 

Si ringraziano per la preziosa collaborazione i Professori:

Gerardo Casanova, Massimo Camocardi e M. Antonella Olgiati.

 

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Milano, 25 aprile 1998

 Istituto didattico pedagogico della Resistenza

 

Nuova bine editore  Milano


 

NOTE

 

[1]È tuttavia previsto un nuovo ricorso alla Corte di Cassazione.

[2][Su tale impostazione, non vi è concordanza tra gli studiosi. Vi è infatti chi evidenzia la violenza non solo politica, ma effettuale della borghesia italiana dall’unità in poi, a cui il movimento operaio e contadino cercò sempre di opporre nella sua linea dominante una risposta per quanto possibile “democratica” e “riformista”. In particolare, secondo questa diversa lettura dei fatti, mai nessuno promosse o teorizzò un “partito armato” nei termini e con le modalità delle BR e gruppi limitrofi; ben diversamente la borghesia dominante si comportò, da Rudinì a Mussolini, dalla repressioni garibaldine al governo Tambroni].

[3][La sigla GAP sta per Gruppi di Azione Partigiana e si ispira alle brigate GAP attive durante la Resistenza, dove GAP stava però per Gruppi di Azione Patriottica].

[4]Durante il tentativo di liberazione dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia, (cfr. G.Bocca p. 85).

[5]Luciana Castellina, deputato del PDUP, nel suo discorso alla Camera.

[6]Attuale presidente della Camera dei Deputati.

[7]Atti del processo di Torino del marzo 1978; cfr. Corriere della sera 13/5/78.

[8]Cfr. La Repubblica e Il Manifesto del 28/10/90.

[9]Dichiarazione del gentile. Podda al giudice Mastelloni, cfr. La Repubblica 25/11 e 1/12/90.

 

 



 

 

 

 

 


 

 

 


 

www.civl.it    www.fivl.net    www.valtoce.net   www.francescocoluccia.net

 

 

www.protagonisti.info