Quaderni del Pedagogico

La lezione del Novecento  (3)

 

 

 

 

Terrorismo

e servizi

segreti

in Italia

 

 

 

 

 

Alessia  Dimitri

 

 

 

 

 

 

 

Alessia Dimitri

TERRORISMO E SERVIZI SEGRETI IN ITALIA

 

 

Parte prima. Il terrorismo

 

Il partito armato

Eversione e stabilizzazione

 

Il terrorismo nero

 

Le brigate rosse: dalla propaganda armata

all’attacco al cuore dello stato

 

L’affaire Moro

 

Il terrorismo dopo Moro

 

Combattenti o criminali?

 

Parte seconda. I servizi segreti

 

Il dopoguerra: nascono i moderni servizi segreti

 

I servizi deviati

 

I servizi segreti ed il terrorismo rosso

 

La riforma del ‘77

 

Gli anni ottanta e gladio

 

Conclusioni

 

Cronologia

 

Bibliografia


 

 

Prefazione

 

L’interrogativo che sgorga naturale da questa veloce storia sul terrorismo e sui servizi segreti in Italia è semplice e, nello stesso tempo, estremamente complesso: come è infatti possibile conciliare, alla vigilia del Terzo Millennio, la democrazia con logiche che tendono a escludere la società civile da scelte che decidono del suo futuro? Il terrorismo nero e rosso è fallito perché, nella sostanza, al di là delle ragioni messe a fondamento da chi lo ha gestito, si arrogava il diritto di determinare gli orientamenti del Paese prescindendo dalla volontà della gente così come era stata democraticamente espressa. In un convegno di alcuni anni fa promosso dall’ANPI e da altre associazioni milanesi, si affermava che la “democrazia ha bisogno di verità”. Sacrosanto. Resta il fatto, però, che sulle tante stragi provocate in Italia, in cui il terrorismo e servizi segreti rivelano un intreccio impressionante, questa verità non è riuscita ancora a farsi strada, mortificando non solo l’ansia di giustizia dei cittadini, ma la stessa democrazia per la quale milioni di italiani si sono battuti e molti anche sono morti. I servizi segreti allora eredità di concezioni autoritarie, contraddizione interna delle società democratiche che vedono negato il principio fondamentale su cui si reggono (la sovranità appartiene al popolo)? Non c’è dubbio. Ma è possibile ipotizzarne l’abolizione in un solo Paese o in un’area ristretta del pianeta? Tutti i Paesi dispongono di servizi segreti per cui chi se ne priva finisce per trovarsi in una oggettiva posizione di debolezza. E allora? La ricerca di soluzioni che consentano alle istituzioni democratiche il loro controllo è sicuramente la strada più praticata. Ma fino a che punto questo controllo si può esercitare senza intaccare il carattere “segreto” di questi servizi? Quesiti difficili, tormentosi, che lasciano ampi spazi all’arbitrio di uomini e gruppi. Un capitolo, quello dei servizi segreti, che, lo si voglia o no, rappresenta una mina vagante per la vita democratica. Un capitolo sul quale le nuove generazioni dovranno esercitare attenzione e intelligenza. Nella speranza che un giorno l’umanità pacificata disponga di regole e istituzioni in grado di gestire lo sviluppo del pianeta, libera dagli attuali condizionamenti. Un sogno? Forse. A cui però non è possibile rinunciare senza rischiare di farsi dominare dal groviglio degli interessi che assediano la democrazia.

L’Istituto didattico pedagogico della Resistenza

 

 

 

 “C’è una Italia che ha imparato a vivere con il terrorismo e un’altra che finge di non vederlo.[...]; forse perché il terrorismo appartiene ai rimorsi e alle colpe inconfessate della nazione. Ma ciò che si sa, ciò che emerge va raccontato nel modo più chiaro e onesto possibile, perché si tratta di una vicenda nostra e politica, non estranea al paese e demoniaca”.

G. Bocca

 

 

 

 

Legge 24 ottobre 1977, numero 801. Articolo 12: Sono coperti da segreto di Stato gli atti, i documenti, le notizie, le attività e ogni altra cosa la cui diffusione sia idonea a recar danno all’integrità dello Stato democratico anche in relazione ad accordi internazionali, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, al libero esercizio delle funzioni degli organi istituzionali, alla indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi, alla preparazione e alla difesa militare dello Stato. In nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell’ordinamento costituzionale.  

 

 

 

PARTE PRIMA

 

IL TERRORISMO

 

 

IL PARTITO ARMATO

Il nostro Paese è stato per circa vent’anni il paese del terrorismo, o meglio dei terroristi: un clima di costante ricatto teneva in ostaggio le istituzioni democratiche che, già non solidissime, hanno (o avrebbero) dovuto elaborare strategie di risposta su fronti diversi e tra loro diversificati: dai tentativi di golpe da parte di prìncipi neri, agli attacchi al cuore dello Stato delle BR.

Quello  che accomuna forme così diverse di terrorismo, che pure hanno avuto radici culturali e obiettivi anche diametralmente opposti, è il loro poter essere considerate un “partito armato”.

L’espressione era stata coniata da Aldo Moro, proprio vittima-simbolo di quella stagione di terrore, ed evidenzia il tratto caratteristico fondamentale che distingue il fenomeno in questione da qualsiasi fenomeno criminale: la sua consistenza politica.

Questo preliminare distinguo è imprescindibile per chiunque voglia accostarsi alla vicenda del terrorismo con consapevolezza critica, senza fermarsi a generici giudizi moralistici, che in nulla aiutano la comprensione del peso che essa ha avuto nella storia dell’Italia post-bellica.

Si può parlare di partito armato, in Italia più che in ogni altro paese, in quanto le organizzazioni di lotta armata hanno avuto i due requisiti fondamentali propri di un partito: da un lato lo spessore ideologico, e dall’altro la capacità di condizionare la vita politica e istituzionale dello Stato.

E’ impensabile, inoltre, parlare di terrorismo senza metterlo in relazione alle vicende politiche, istituzionali ma non solo, in cui esso nasce e si sviluppa; Giorgio Bocca a un anno di distanza dall’assassinio di Aldo Moro scriveva: “[...] il terrorismo rosso non è patologia e neppure figlio di nessuno; ma effetto estremo di una crisi che è stata di tutti, risposta estrema a una paura che è stata di molti.”

 

 

EVERSIONE  E  STABILIZZAZIONE

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta l’Italia attraversa una fase politica molto delicata, che vede ormai esaurita la ricostruzione post-bellica, ma ancora non adeguate le strutture istituzionali, e una vita democratica che stenta a trovare un equilibrio. Il progetto del centrosinistra, cioè del governo di coalizione tra democristiani e socialisti, è fallito; il movimento studentesco del ‘68 ha una parabola tanto entusiasmante quanto breve  (che non poca influenza avrà sull’eversione di sinistra); ad esso succede l’autunno caldo del ‘69, l’anno delle grandi rivendicazioni operaie, delle speranze sindacali ... A fare da controparte a questo c’è una democrazia debole e poco trasparente, che vive di occupazioni di potere più che di strategie legislative, che ancora non ha finito di pagare il suo debito politico all’America del piano Marshall e che ha già alle sue spalle un progetto di golpe nel ‘64.

Reso noto tre anni dopo sulle colonne dell’Espresso, esso consisteva in un piano di emergenza messo a punto dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, che avrebbe dovuto assumere con le sue sole forze (piano Solo) il controllo dell’ordine pubblico, occupando Prefetture; RAI-TV, carceri, sedi di partiti, sindacati e giornali.

La relazione della commissione parlamentare d’inchiesta propende per attribuire interamente la responsabilità al gen. De Lorenzo, comandante dell’Arma dei Carabinieri, ma sembra improbabile che un membro dei vertici militari possa elaborare un piano di emergenza all’insaputa del capo dello Stato e di almeno una parte della classe politica.

Al di là delle singole responsabilità personali, comunque, su cui la cautela è d’obbligo, il piano Solo è forse il primo atto di quella torbida stagione di dubbi e di sospetti, di versioni ufficiali e verità negate, in cui ancora il nostro Paese ancora si dibatte. Essa mostrerà il suo lato più oscuro e violento solo pochi anni dopo, con la tragedia di piazza Fontana (1969).

Siamo in pieno autunno caldo quando sedici persone muoiono per l’esplosione di un ordigno all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano: ancora senza colpevoli, è l’inizio di un’escalation di sospetti per cui perderanno la vita altre persone.

Viene inizialmente seguita la pista anarchica, che porta all’arresto di Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli, ma già l’opinione pubblica sembra poco convinta di questa tesi: il fermo dei due è stato troppo tempestivo, e sembra non esserci a loro carico nessun indizio. Dopo 48 ore di fermo, il ferroviere Pinelli cade dalla finestra del quarto piano della questura di Milano morendo sul colpo. La versione ufficiale è di suicidio, l’anarchico sarebbe così anche reo confesso, ma già in molti pensano ad un omicidio, perpetrato per coprire gravi responsabilità.

Qualche mese dopo, nel giugno del ‘70, viene pubblicato un libro che farà epoca: una controinchiesta sulla strage che ha per titolo un’espressione divenuta poi celebre: “La strage di Stato”.

Prende consistenza, soprattutto nell’area di sinistra, l’ipotesi di una non casuale concomitanza tra le lotte operaie dell’autunno caldo, e il repentino richiamo all’ordine pubblico seguito naturalmente alla strage.

Il processo viene trasferito da Roma, a Milano, a Catanzaro: le indagini sono in più modi intralciate e i processi boicottati. La tensione cresce, e nel ‘72 finalmente Valpreda è scarcerato, mentre si comincia a seguire la pista nera con l’arresto di neofascisti Freda, Ventura e Giannettini (anche uomo dei servizi segreti) con l’accusa di strage. Condannati all’ergastolo in primo grado, saranno assolti nel 1981 dalla Cassazione.

La strage è tuttora senza colpevoli e le indagini proseguono, ormai soltanto sulla pista nera.

 

 

IL TERRORISMO NERO

E’ dunque in questo contesto di forti tensioni e sospetti sulla trasparenza e sull’affidabilità delle istituzioni che nasce il terrorismo.

Immediatamente si delineano delle fortissime differenze tra quello di matrice neofascista e quello di sinistra. Divergono profondamente non solo i sostrati ideologici, ma anche modalità e obiettivi degli attentati e delle rivendicazioni, e la formazione culturale ed esistenziale degli aderenti.

Privi di una precisa strategia politica, i gruppi terroristici o paraterroristici di marca neofascista nascono in ambienti vicini a quelli militari dopo il ‘68. Si costituiscono così organizzazioni come Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo e Fronte Nazionale, che andranno a formare una rete eversiva attraverso cui passeranno gran parte degli episodi che costituiranno la strategia della tensione.

Quello dei rapporti tra gruppi neofascisti e apparati di ordine pubblico, costituisce un terreno vischioso che corre parallelo a tutta la storia della repubblica, ma di cui si è ancora lontani dall’individuare i confini precisi.

Si può dire però che certamente lo scollamento della classe politica e degli apparati istituzionali, anche di fronte ad avvenimenti come la scoperta del piano Solo, ha reso possibile che i servizi segreti e alcuni settori delle forze armate conquistassero una sempre maggiore autonomia di movimento, anche in connessione con organizzazioni legali o semi-legali non solo italiane.

E’ difficile dire in che misura la base delle organizzazioni di estrema destra fosse consapevole di questa strumentalizzazione per fini diversi: molto spesso anzi le dichiarazioni degli stessi terroristi fanno pensare più ad una guerra privata che ad un progetto rivoluzionario di qualsivoglia natura.

Incisivi, a questo proposito, sono alcuni passi di una intervista che Vincenzo Vinciguerra, terrorista neofascista reo confesso della strage di Peteano (1972) in cui rimasero uccisi tre carabinieri, ha rilasciato al giornalista Sergio Zavoli nel ‘93:

V.V.: “ Ci sono due punti importanti da chiarire: non c’è stata nessuna confessione. C’è stata un’assunzione di responsabilità [...], che però non deve essere intesa come rivendicazione, eventualmente, dell’attentato; non atto di contrizione, come fa intendere il termine confessione.

L’altro punto riguarda il termine di strage. Giuridicamente è strage qualsiasi fatto provochi la morte di più di due persone o comunque che ponga in pericolo l’incolumità di diverse persone. Sul piano morale, la strage è quella che colpisce indiscriminatamente obiettivi civili, falcia la popolazione civile, nelle banche, nelle stazioni ferroviarie, sui treni. Un obiettivo militare colpito nell’ottica di un attacco allo Stato non può essere messo sullo stesso livello dell’attentato di piazza Fontana [...].

S.Z.: “ E quei carabinieri che non sapevano di essere in guerra?”

V.V.: ”Ma i carabinieri sapevano di essere in guerra perché lo Stato lo è da anni. Ancora prima del 1972 si parla di conflitto in Italia [...]”.

S.Z.: ”In uno Stato di diritto la parte che lei considera avversa non ha mai inteso partecipare ad una guerra”.

V.V.: ”Ma io dico di più. Dico una cosa diametralmente opposta dalla sua. Dico che lo Stato ha dichiarato una guerra senza avvertire la popolazione, e l’ha fatta, questa guerra; quindi i carabinieri di Peteano non avevano colpe specifiche ... ma dire che non c’è stata una guerra, che non c’era una guerra già nel 1972, è una cosa inesatta. [...] Da parte mia contro lo Stato, da parte dello Stato guerra contro questa nazione. [...] Lo Stato strumentalizza oppositori, crea una situazione di scontro, destabilizza l’ordine pubblico al fine di stabilizzare l’ordine politico. [...] Ma questa non è una guerra classica. Questa è una guerra che i tecnici degli stati maggiori, compreso quello italiano, dichiarano “non ortodossa”. La guerra che ha per obiettivo le menti, le coscienze, i cuori e gli animi degli uomini, non i territori. La guerra non ortodossa non risponde alle regole della guerra classica: e questo degli agguati, degli attentati, non è che un mezzo, uno dei tanti impiegati in questo tipo di guerra anche dai militari in uniforme, ai quali però nessuno rimprovera l’adozione di certi metodi. Si rimprovera soltanto a coloro che non hanno un’uniforme visibile. [...] Questi servizi “deviati”, conoscono perfettamente il mondo neofascista. [...] Sono stati informati nei mesi seguenti all’attentato con indicazioni generiche e poi nell’ottobre 1972, hanno avuto in mano elementi concreti per poter provare la mia responsabilità nell’attentato di Peteano. Non lo hanno voluto fare, e non perché io ero un uomo da proteggere da parte di questi servizi, e tanto meno da parte dell’Arma dei Carabinieri, ma perché il farlo contrastava con la strategia politica che stavano portando avanti. [...] L’attentato di Peteano non poteva provocare alcuna reazione popolare; escludeva il popolo, non lo coinvolgeva. Il popolo non poteva dire di no perché non gli ho lanciato alcun messaggio. L’attentato di Peteano era un messaggio interno al mondo al quale appartenevo.[...] Di fronte ad un attentato che è costato la vita a tre carabinieri lo Stato nega la verità, e chi ha compiuto l’attentato, invece, la afferma. La afferma prendendosi un ergastolo, non ripudiandolo. Non chiedo nulla perché non ho nulla da chiedere a questo Stato, ma soltanto da dare quello che gli ho sempre dato: il disprezzo che merita.”

In questa intervista c’è tutto il volto del terrorismo di destra: la solitudine eroica di una generica guerra contro lo Stato corrotto e violento, l’assenza di un qualsiasi elaborato progetto politico, e infine la collusione con apparati nevralgici delle istituzioni, che non proteggono uomini come Vinciguerra, ma tacciono per anni a causa di una precisa strategia politica (ammesso che i servizi segreti debbano poter elaborare strategie politiche autonome).

L’attentato di Peteano si colloca in un periodo molto delicato della storia d’Italia, a meno di due anni da un tentativo di golpe (dicembre ‘70) ad opera del principe neofascista Junio Valerio Borghese, golpe scongiurato all’ultimo momento a causa di un misterioso contrordine di incerta provenienza. Sulla notte di Tora-Tora, come fu chiamata la notte del tentato colpo di Stato, un solo imperativo: il silenzio.

Si scoprirà l’implicazione del massone Licio Gelli e di Stefano delle Chiaie, terrorista neofascista latitante perché indagato per la strage di piazza Fontana, che, riuscito ad arrivare nell’armeria del Viminale, doveva consegnare duecento mitra per i golpisti.

Borghese potrà vantare molte coperture, tra cui quella dei servizi segreti diretti in quegli anni da Vito Miceli, che si scoprirà essere membro della P2 di Gelli.

Chi avrebbe beneficiato del golpe, chi avrebbe dato il contrordine e che ruolo hanno avuto i servizi segreti in questa vicenda e in altre di marca neofascista ?

Le fitte trame che legano servizi segreti e terrorismo nero si fanno, negli anni successivi a piazza Fontana e al golpe Borghese sempre più intricate.

Nel maggio 1972 viene ucciso il commissario Luigi Calabresi: si indaga negli ambienti della sinistra extraparlamentare, da cui Calabresi era sempre stato ritenuto il responsabile della morte di Giuseppe Pinelli e l’uomo simbolo della violenza di Stato. La tesi che l’omicidio sia maturato come vendetta alla morte dell’anarchico non è stata praticamente mai messa in dubbio, ed ha portato nel ‘97 (dopo alterne vicende processuali) all’arresto definitivo[1], forse senza delle prove sufficientemente plausibili, di Adriano Sofri, (di Ovidio Bompressi e Giorgio Pietrostefani), all’epoca leader dell’organizzazione di estrema sinistra Lotta Continua, fin dal ‘69 tra i principali accusatori del commissario Calabresi. Una nota a margine: dal 1971 Calabresi stava indagando su una vicenda che riguardava l’estrema destra neonazista: un traffico d’armi e finanziamenti agli eversori tedeschi.

Si allunga quindi la lista delle vittime in qualche modo legate a piazza Fontana: dai sedici morti del 12 dicembre del ‘69, alla morte di Pinelli, a quella di Calabresi, fino a quattro nuove vittime il 17 maggio del ‘73.

Davanti alla questura di Milano, in via Fatebenefratelli, si sta svolgendo una cerimonia in memoria del commissario Calabresi, presente il Ministro dell’Interno Mariano Rumor: esplode una bomba che uccide quattro persone e ne ferisce cinquantadue. L’attentatore viene subito arrestato: si chiama Gianfranco Bertoli e dice di essere un anarchico. Le conclusioni che ne vengono tratte sono intuibili, ma Bertoli ha mentito: non solo non è anarchico, ma è stato anche agente dei servizi segreti.

In Italia non ci sarà mai un golpe, ma l’aria plumbea della repressione, dell’impunità e delle complicità creano un clima di tensione e insieme di rassegnazione nell’opinione pubblica che la rendono politicamente più manovrabile.

Ma qual è l’origine politica del terrorismo nero? Secondo Giorgio Bocca esso nasce nell’immediato dopoguerra, quando i servizi segreti alleati si adoperano per costruire nel nostro paese una rete di informatori e di collaboratori in funzione anticomunista. La possibilità di questo reclutamento è strettamente legata all’amnistia dei fascisti incarcerati concordata tra De Gasperi e Togliatti, che permetterà alle ex camicie nere di ricostruirsi in partito.

La nascita dell’MSI risulta paradossalmente funzionale alla tenuta dell’equilibrio politico esistente, per la sua possibilità di assorbire e incanalare frange sovversive, e insieme per la sua ricattabilità in quanto totalmente dipendente ( in ragione dell’amnistia stessa) dai partiti di governo e dalla diplomazia segreta.

Queste sono le ragioni di fondo, aggiunge Bocca, per cui il terrorismo nero sarà sempre, in qualche modo terrorismo di Stato, subalterno ai poteri occulti e separati dello Stato.”

La parabola delle organizzazioni e delle azioni di stampo neofascista sembra confermare questa tesi: arriva un momento, pressappoco intorno al ‘74 (dopo le stragi dell’Italicus e di piazza della Loggia), in cui il terrorismo nero si avvia ad una inarrestabile caduta: si capisce che esso non funziona politicamente, che invece di spostare i voti verso destra, li ha spostati verso sinistra; e poi il golpismo alla maniera di Borghese non è più adeguato a delle strutture democratiche che, almeno apparentemente, si stanno rafforzando: “adesso i suoi eroi sono invecchiati, scrive ancora Bocca, e i nuovi padroni, i corpi separati dello Stato, i servizi che rappresentano in Italia gli interessi della potenza imperiale e del comando della NATO non vogliono spingere il gioco oltre un certo limite: la Democrazia Cristiana non sembra sostituibile come partito di governo; basta condizionarla a destra, rimetterla in giusta linea quando sbanda. Non è il grande golpe che preoccupa gli antifascisti, ma la progressiva saldatura tra apparato dello Stato e forze reazionarie, lo spettacolo quotidiano di complicità tra polizia e squadre nere.”

 

LE BRIGATE ROSSE: DALLA PROPAGANDA ARMATA ALL’ “ATTACCO AL CUORE DELLO STATO”

- “Pensa che la strage di piazza Fontana abbia avuto un peso nell’origine del terrorismo rosso, e in quale misura?”

- “[...] da quel momento ho deciso che avere in tasca una pistola non era un reato, visto che serviva.”

A dare questa risposta in un’intervista è Alfredo Bonavita, uno dei fondatori delle BR. In realtà non ha mai ucciso, e ha scontato 14 anni di carcere.

Sicuramente piazza Fontana, la strage di Stato, è stato un episodio fondamentale per la nascita del terrorismo rosso, ma in che contesto politico, nazionale ed internazionale, si colloca ? Rispondere a questa domanda vuol dire non fare l’errore di tutti i partiti negli anni ‘70, quello cioè di collocare il fenomeno terroristico fuori dalla vita politica del Paese, lavandosi le mani e la coscienza di responsabilità che, certamente indirette, non possono essere ignorate.

Ma da quali tradizioni e situazioni nasce la decisione di un’avanguardia giovanile di passare alla lotta armata?

Vi sono certamente diversi ordini di ragioni: uno di questi è certamente di risposta alla minaccia di golpe autoritario diffusasi tra il ‘64 e il ‘70, anni in cui in ambienti comunisti e partigiani si teme di essere arrestati di notte, e di trovare i carri armati nelle strade al mattino. Quanto questo pericolo fosse reale, e quanto la destra italiana fosse in grado di una eroica e solitaria presa del potere, è cosa che oggi può essere messa fortemente in dubbio, ma certamente in quegli anni il timore era molto più diffuso, soprattutto dopo il golpe greco del ‘69.

Un altro fattore che sicuramente ha contribuito alla nascita di una sinistra eversiva è stata la tradizione del movimento operaio e contadino, che in Italia, come altrove, è stata una storia di violenza politica[2]: prima sotto la guida anarchica, poi del socialismo massimalista, ma che anche sotto l’egida del sindacato e del partito comunista ha avuto in sé isole di violenza, forse proprio perché, quanto più sindacato e partito diventavano minimalisti nei loro programmi, (e moderati nelle loro richieste), tanto più si aprivano spazi ai gruppi “rivoluzionari”: la cosiddetta Autonomia Operaia, ad esempio.

Il PCI non ha ancora enunciato la tesi del compromesso storico, ma è comunque un partito che sta cambiando, sempre meno operaio e più burocratizzato, mentre le nuove leve della sinistra hanno in mente la tradizione partigiana, diventata quasi leggenda nei racconti della generazione precedente.

E’ il 16 aprile 1970: una voce si inserisce nel telegiornale delle 20.00, il messaggio, che è captato a Genova, Milano e Trento, annuncia una nuova resistenza alla violenza fascista e dell’imperialismo straniero: “Sono nate le Brigate Rosse e si sono ricostituite le Brigate Gap”.

I Gap[3] sono il primo gruppo della sinistra a propugnare il ricorso alla lotta armata, il loro organizzatore e sovvenzionatore è Giangiacomo Feltrinelli. Il loro punto di riferimento è la Resistenza, nell’ottica comune ad una parte della sinistra che essa abbia mancato il suo fine ultimo, quello della rivoluzione proletaria, e che quindi vada proseguita la lotta partigiana fino al suo compimento.

L’appartenenza di Feltrinelli all’alta borghesia milanese è stata spesso motivo di ovvie critiche da parte dei sostenitori della legittimità esclusiva del proletariato a parlare di rivoluzione.

Quasi contemporaneamente, nel ‘69 a Milano, nascono le BR ad opera del Collettivo politico metropolitano di Renato Curcio, Margherita Cagol e Alberto Franceschini, ma la scelta della lotta armata avverrà solo nel ‘70, dopo piazza Fontana.

Di pari passo vanno formandosi altri gruppi che si collocano fuori dalla stessa sinistra extraparlamentare. Dal grande evento del Sessantotto partono due rami: uno marxista-leninista che guarda a Mao e alla rivoluzione culturale cinese, si chiamerà prima Servire il popolo poi Unione dei marxisti-leninisti italiani; l’altro è il ramo operaista, che si propaga nelle fabbriche: dall’unione di studenti e operai della FIAT nascono Lotta Continua e Potere Operaio. Negli anni ‘70 molti provenienti da Potere Operaio e confluiti in Autonomia Operaia si dedicheranno alla guerriglia urbana; anche un gruppo uscito da Lotta Continua imbraccerà le armi, saranno i NAP (Nuclei Armati Proletari).

Fortemente contrario alla lotta armata sarà invece il gruppo de “Il Manifesto” (Rossana Rossanda, Valentino Parlato), costituitosi nel ‘70. Scriverà Parlato:

“Ci abbiamo messo troppo tempo a convincerci che le Brigate Rosse fossero veramente rosse. [...] In primo luogo perché, per noi di sinistra, per noi comunisti, era inconcepibile che il terrorismo fosse arma di lotta politica. In secondo luogo, c’era la strategia della tensione, piazza Fontana. Il sospetto era legittimo. In terzo luogo, perché l’imbroglio c’era e c’è ancora. E’ in grado qualcuno di dire che tutto è chiaro nel rapimento Moro?”

E’ difficile in effetti stabilire quale fosse la nicchia della sinistra in cui le BR si collocano: da un lato c’è il PCI che disconosce apertamente la lotta armata, tanto da essere, durante il rapimento Moro, sostenitore della linea dura almeno quanto la DC; dall’altro c’è un certo seguito operaio in alcune fabbriche del triangolo industriale (Pirelli, FIAT, SIT-Siemens), seguito che però non diventa mai consenso di massa.

Intanto le Br cominciano la loro attività con delle azioni dimostrative, quelle della cosiddetta propaganda armata: dai primi volantini con la sigla BR e la stella a cinque punte, diffusi nel quartiere Lorenteggio a Milano (primavera del ‘70), all’incendio di macchine di capi intermedi e dirigenti di fabbrica (soprattutto SIT-Siemens e Pirelli), fino al marzo del ‘72, quando rapiscono per alcune ore e fotografano con una pistola puntata alla tempia il dirigente della SIT-Siemens Macchiarini. Queste prime azioni sono modeste, commentate da un linguaggio forzatamente operaistico e massimalista, che ricorda più la tradizione anarchica che quella di Ordine nuovo, lo storico movimento torinese di Gramsci e Togliatti.

In questi primi anni i terroristi ottengono il loro scopo, quello di farsi conoscere, ma la notorietà va di pari passo con l’ambiguità, e le BR non riescono a trovare una collocazione politica. Forse perché la loro analisi della società italiana è fortemente datata: non esiste più nel nostro paese una borghesia imprenditoriale forte, il potere politico ha tolto peso anche ad essa: il nemico costituito delle storiche lotte operaie in realtà non esiste più, o perlomeno non ha più la stessa fisionomia. Quanto successo poteva avere, del resto, l’applicazione del modello cinese, russo o cubano, a quell’intreccio inestricabile di poteri, da quelli locali a quelli internazionali, che è stata l’Italia del dopoguerra ?

Intanto i brigatisti continuano ad alzare il tiro, rapendo per otto giorni il capo del personale della FIAT Ettore Amerio.

Poi il 1974 è l’anno della svolta. Viene rapito il giudice Mario Sossi: si chiude la fase della propaganda in fabbrica e comincia l’attacco al cuore dello Stato. Durante il sequestro Sossi le forze dell’ordine danno prova di totale impotenza. Inoltre la coincidenza del rapimento con la campagna elettorale per il referendum sul divorzio, insinua il dubbio che l’operazione sia pilotata per spostare voti verso la linea fanfaniana.

Viene chiesta la liberazione dei detenuti del gruppo XXII Ottobre (quello di Valpreda) in cambio della vita di Sossi. Le trattative iniziano, ma vengono bloccate dal Procuratore della Repubblica di Genova Coco. Le BR cedono e liberano Sossi; due anni dopo Coco verrà ucciso.

Il giudice Giovanni Tamburino, che conduce le indagini sulla “Rosa dei Venti”, un’organizzazione sovversiva di cui fanno parte ufficiali dell’esercito e militari di estrema destra, scriverà:

“Il 1974 è un anno di svolta, cioè rappresenta il punto in cui si ha forse l’esplosione massima della potenza del terrorismo eversivo di estrema destra e inizia invece a decollare in modo quasi irresistibile il terrorismo delle Brigate Rosse. Ora, questa variazione, era stata profetizzata da esponenti molto autorevoli dei servizi segreti e, inoltre, si ritrova in uno degli ultimi numeri della rivista “OP” di Pecorelli, dove si legge, appunto, che sarebbe cambiata la strategia e che da allora in poi vi sarebbe stato un appoggio all’altro versante, per così dire, del terrorismo.”

Il passaggio dalla propaganda armata alla strategia dei ferimenti e delle uccisioni, obbliga le Brigate Rosse ad una più rigida organizzazione per la scelta delle persone da colpire. Intere frange hanno il compito di costituire schedari ed archivi, dove verrà raccolta una mole impressionante di informazioni su politici, giornalisti, magistrati e uomini delle forze dell’ordine. Ma il 1974 è anche per alcuni aspetti l’anno del declino. C’è un momento in cui si ha l’impressione che l’avventura delle BR sia finita: non solo per le sconfitte e gli arresti, ma soprattutto perché, come scrive Giorgio Bocca, “sembra ormai ridotta ad un gioco poliziesco di guardie, ladri e spie”.

Comincia infatti ad essere usata l’arma degli infiltrati, primo fra tutti Silvano Girotto, che porterà all’arresto di Renato Curcio. L’organizzazione, così come l’aveva concepita il gruppo storico, non può più reggere, e muore nella primavera del ‘74: le nuove BR, quelle successive all’arresto di Curcio e Franceschini e alla morte di Maria Cagol (avvenuta durante uno scontro a fuoco con dei Carabinieri con modalità mai chiarite)[4], saranno molto diverse: “più feroci, più terrorizzanti, più numerose, più legate ai piani del terrorismo internazionale, più misteriose.”

Come dopo la strage di piazza Fontana era cominciata la propaganda armata delle BR, dopo quella di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974) si inizia a sparare per uccidere.

Un evento che peserà moltissimo sull’organizzazione, la struttura e la stessa natura delle nuove BR, sarà il “movimento” del ‘77. Esso nasce in parte dalla deludente situazione politica seguita alle elezioni del 20 giugno del ‘76: la lista di estrema sinistra (Democrazia Proletaria) ottiene appena l’1.5 % dei voti, mentre il PCI raggiunge il suo massimo storico con il 34.4 %, e la sinistra nel suo insieme arriva al 47 %. Nonostante questo si costituisce un governo monocolore della DC, che si regge sull’astensione di tutti i partiti dell’arco costituzionale (dal PLI al PCI). Ormai il PCI ha scelto definitivamente di stare col governo: la frattura con le minoranze più “dure” è inevitabile, con tutte le conseguenze che ne derivano. Questa situazione concorre a determinare una sorta di rivolta giovanile, le cui frange estreme contribuiranno al rilancio della lotta armata: intorno alle nuove BR di Moretti, e al neonato gruppo Prima Linea.

Nel 1977 arriva anche il primo processo alle BR: si svolge a Torino, si trasforma in una prova di forza, e i brigatisti vincono subito il primo round, avviando una campagna di terrore che impedisce, il 3 maggio, l’udienza per la mancata costituzione della giuria popolare. La paura è stata più forte. Il processo ricomincerà solo nel marzo del ‘78, e Torino sarà una città assediata. Ne dà un incisivo resoconto Giorgio Bocca, sotto alcuni profili uno dei testimoni più lucidi di quegli anni:

“Non è facile seguire come cronista questa vicenda italiana antica e conosciuta che è il processo alle Brigate Rosse; non è per niente facile evitare sentimenti di vergogna, di pena, di stanchezza. I brigatisti e i loro parenti parlano di repressione fascista, la condizione delle carceri speciali è certamente dura e crudele; ma la vergogna qui non viene da questo o quell’aspetto feroce o ingiusto della vicenda, viene, globalmente, dalla sua inutilità e dalla sua ambiguità. In non pochi momenti ci si sorprende a chiedersi che cosa significhino questi imputati, questi giudici, queste migliaia di poliziotti; che cosa ci sia dietro questa colossale perdita di energie e di entusiasmi giovanili, di tempo, di soldi, di buonsenso. [...] A Torino c’è il processo alle BR come è, e fuori c’è il processo come lo immaginano gli italiani. Il processo di Torino come è non è né la ferma e pacata giustizia dello stato di diritto né la voce indomabile della rivoluzione che cresce; è invece il confronto faticoso tra uno Stato antiquato e una minoranza che esprime con il terrore la sua disperata opposizione.

Lo Stato è quello che è con i suoi carabinieri imberbi, piantati come i soldatini del re sardo di fronte alla gabbia di terroristi di cui non capiscono una parola; [...] è il cancelliere che scrive a mano; è il questore che trova il modo di far perdere due ore vietando l’ingresso ai fotografi; lo Stato è questo cumulo di carte scritte in una lingua orrenda, in disuso fra la gente viva da almeno cinquant’anni; [...]. Ma di fronte a questo ammasso di ritardi e di stanchezza non c’è la rivoluzione ma solo il terrore.

[...] Una pioggia di anni di prigione dati a caso, secondo la gerarchia notoria o romanzata del gruppo storico; di più a Curcio e Franceschini, di meno agli altri, una giustizia d’obbligo che non convince nessuno.”

 

 

L’ “AFFAIRE” MORO

Nel frattempo le BR fuori dal carcere continuano ad agire, e il 16 maggio 1978, giorno in cui si vota la fiducia al nuovo governo Andreotti, l’azione più clamorosa: il rapimento di Aldo Moro.

Con l’agguato di via Fani (in cui perdono la vita cinque uomini della scorta di Moro) giunge al culmine l’attacco al cuore dello Stato; perché il leader democristiano è uno dei rappresentanti di primissimo piano del nostro paese (molte autorità internazionali diffonderanno appelli per la sua liberazione), ma soprattutto perché Aldo Moro sembra essere in quei mesi il fulcro di quel precario equilibrio politico che potrebbe, almeno in apparenza, risolvere i rapporti di peso fra PCI e DC.

Ma il compromesso storico, come viene battezzata questa nuova speranza politica, era ben lontano dal mettere tutti d’accordo: non era solo l’ultrasinistra, che vi vedeva l’ultimo atto di un definitivo spostamento del PCI su posizioni filogovernative, a guardare con sospetto allo storico accordo, ma anche una parte non trascurabile della stessa DC, nonché alcune forze internazionali.

Forse proprio per questo motivo il rapimento di Moro, e poi la sua uccisione, sono sempre state costellate da numerosi dubbi (suffragati da alcuni indizi) su reali responsabilità, complicità, o semplici accondiscendenze.

Subito dopo il rapimento si ha un frenetico susseguirsi di notizie: dopo poco più di un’ora già un messaggio delle BR chiede entro 48 ore la liberazione dei brigatisti detenuti a Torino, di quelli di Azione rivoluzionaria e dei NAP; a sole due ore dal rapimento la DC ha scelto di respingere qualsiasi ricatto.

Il ministro degli Interni Cossiga costituirà il primo comitato tecnico operativo, che avrà il compito di coordinare le ricerche dei terroristi: solo nel 1981, con la pubblicazione delle liste della P2, si scoprirà che una parte delle persone presenti nel comitato era iscritta alla loggia massonica più potente e misteriosa d’Italia.

Mentre lo Stato cerca di rispondere all’attacco brigatista, in Parlamento si delinea il fronte della fermezza, che sostiene l’inaccettabilità di qualsiasi trattativa, e che vede DC e PCI in prima linea.

Il governo Andreotti ottiene in una sola giornata la fiducia di Camera e Senato, con un dibattito parlamentare ridottissimo, e questo sembra già essere il primo punto a favore dei terroristi, il cui scopo è appunto quello di “strozzare il funzionamento delle istituzioni democratiche”[5].

Il rifiuto di qualunque dialogo diviene intanto sempre più forte, mentre le BR non sembrano disposte ad un rilascio senza condizioni come nel caso Sossi; quello che esse cercano, in realtà, non è tanto la liberazione dei detenuti, quanto piuttosto il riconoscimento politico che deriverebbe da una trattativa ufficiale.

“Ci ponevamo come parte speculare allo Stato e quindi come forza che poteva anche trattare, discutere, o comunque imporre modifiche di comportamento. [...] Ci eravamo intestarditi su questo fatto: avere una presa di posizione ufficiale della Democrazia Cristiana, [...] non davamo credito ad altre possibilità che ci venivano offerte, come la mediazione della Caritas o di Amnesty International.” (Franco Bonisaldi, brigatista)

Ma il fronte della fermezza non si incrina; soprattutto per la DC la strategia dell’intransigenza è l’unica intorno a cui si può raccogliere tutto il partito, in un momento in cui ogni sfaldatura deve essere accuratamente evitata. L’atteggiamento del partito cattolico non cambia nemmeno quando cominciano ad arrivare le lancinanti lettere scritte da Aldo Moro nella sua prigione.

A Francesco Cossiga, ministro dell’Interno:

“Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio di legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile [...]. Che Iddio vi illumini per il meglio, evitando che siate impantanati in un doloroso episodio, dal quale potrebbero dipendere molte cose.”

A Benigno Zaccagnini, segretario della DC:

“[...] Possibile che siate tutti d’accordo nel volere la mia morte per una presunta ragione di Stato che qualcuno lividamente vi suggerisce, quasi a soluzione di tutti i problemi del Paese ? Altro che soluzione dei problemi. Se questo crimine fosse perpetrato si aprirebbe una spirale terribile che voi non potreste fronteggiare. Ne sareste travolti. Si aprirebbe una spaccatura con le forze umanitarie che ancora esistono in questo paese. [...] Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese. Pensateci bene, cari amici. [...] Se la pietà prevale, il paese non è finito.”

Neanche gli appelli di Paolo VI sortiscono alcun effetto; e mentre il potere politico è paralizzato, gli apparati di sicurezza del Paese, dalle forze dell’ordine ai servizi segreti, mostrano tutta la loro spaventosa inefficienza, le cui ragioni rimangono tuttora difficili da determinare.

Il 18 aprile giunge un comunicato delle BR, che annuncia l’avvenuta esecuzione dell’on. Moro, il cui corpo potrà essere recuperato nel Lago della Duchessa, in una zona tra il Lazio e l’Abruzzo.

Il comunicato era un falso, cinque anni dopo si scoprirà essere opera di tale Chicchiarelli, falsario legato agli ambienti neofascisti e confidente dei servizi segreti. Lo scopo pare fosse quello di verificare gli effetti della notizia dell’uccisione di Moro sul Paese.

Enrico Fenzi, brigatista:

“Secondo le BR, il comunicato del Lago della Duchessa era un falso del governo, della polizia, insomma del potere ... ed era il segnale chiaro ed inequivocabile che nessuna trattativa era possibile ... che lo Stato non avrebbe mai trattato per Moro.”

Il 9 maggio le BR annunciano l’esecuzione, il corpo verrà ritrovato in via Caetani, una strada che si trova tra piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure, rispettivamente sedi della DC e del PCI.

Moro lascia una specie di testamento, scritto prima dell’esecuzione, estremamente drammatico e lucido insieme:

“[...] Siamo ormai, credo, al momento conclusivo. [...] Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della DC con il suo assurdo e incredibile comportamento. [...] E’ poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall’idea che il parlare mi danneggiasse, o preoccupati dalle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare. [...] Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochissimo: forse ne avrà scrupolo.[...].”

 

 

IL TERRORISMO DOPO MORO

L’uccisione di Aldo Moro fu il culmine dell’attività brigatista, anche se, quando esso avvenne, sembrò poter essere solo il primo atto di una escalation di violenza che avrebbe potuto addirittura condurre ad una guerra civile.

In realtà questo non avvenne, ma il terrorismo continuò a colpire: non solo le BR, cui si affiancò l’organizzazione Prima Linea, ma tornò anche lo stragismo di matrice neofascista.

Ebbe particolare eco, nel ‘79, l’uccisione a Milano del giudice Alessandrini, apprezzato dalla sinistra per la sua indagine su piazza Fontana, ad opera di un commando di Prima Linea guidato da Marco Donat Cattin. Gli attentati continuano, ma inizia anche la controffensiva delle forze dell’ordine: dal 1978 il gen. Dalla Chiesa guida il riorganizzato nucleo specializzato contro il terrorismo.

Nel 1980 vengono uccisi il commissario Albanese a Venezia, e il giornalista del “Corriere della Sera” Walter Tobagi a Milano.

Le BR sono divise in due tronconi, quello militarista di Mario Moretti, e quello movimentista di Giovanni Senzani, entrambi partecipano, il 12 dicembre del 1980, al rapimento del giudice D’Urso, responsabile della organizzazione carceraria. Le BR ripetono la tattica del rapimento Moro, ponendo le condizione per la liberazione. Chiedono la pubblicazione dei loro comunicati, ma la maggior parte della stampa si assume la responsabilità di rifiutare (black-out). Solo l’Espresso pubblica i “verbali” degli interrogatori di D’Urso, che infine verrà rilasciato.

Intanto il 2 agosto 1980 una bomba era esplosa nella sala d’attesa della stazione di Bologna: 85 morti.

Si riparla di terrorismo nero e di servizi segreti, si indaga su Licio Gelli. Sono attualmente in carcere solo i presunti esecutori materiali della strage, “Giusva” Fioravanti e Francesca Mambro, neofascisti, all’epoca giovanissimi.

Nel frattempo, nel 1981, viene arrestato Mario Moretti, forse grazie ad una segnalazione del servizio segreto israeliano (Mossad).

Ma le BR rapiscono ancora Ciro Cirillo, assessore regionale della Campania e leader democristiano; sulla sua liberazione ci sono molte ombre, si parla dell’influenza decisiva del Sismi del gen. Santovito (iscritto alla P2), e della mafia. Gli ultimi sporadici attacchi delle BR risalgono al 1982, lo stesso anno in cui l’uomo simbolo della lotta al terrorismo, il gen. Dalla Chiesa, verrà ucciso dalla mafia (3 settembre), portando certamente con sé alcuni segreti della nostra storia.

 

 

COMBATTENTI O CRIMINALI ?

I terroristi commettono reati politici o azioni criminali ordinarie?

Dalla risposta a questa domanda dipende non solo il giudizio morale che ogni singolo individuo può dare del fenomeno terroristico, ma anche la strategia politica e punitiva che uno Stato decide di adottare.

Gli Stati rifiutano di considerare i terroristi come combattenti di guerra, perché, se di guerra si trattasse, si avrebbe a che fare con una controparte politica, con un potere alternativo a quello istituzionale: e questo farebbe perdere a qualsiasi Stato quella prerogativa di unicità del potere su cui si fonda. Ma d’altra parte è impensabile che uno Stato consideri i terroristi come criminali comuni, perché palesemente non lo sembrano.

Questo problema è molto concreto ed ha diversi risvolti. In Italia il Parlamento varò tra il ‘75 e il ‘77, una serie di leggi “speciali”: è del 21 maggio 1975 l’approvazione della legge Reale, che consentì maggiore autonomia alle forze dell’ordine nelle indagini sui terroristi; essa in realtà nega la libertà provvisoria a chi è indiziato di reati contro l’ordine pubblico, estende i termini della carcerazione preventiva, dà facoltà a polizia e carabinieri di arrestare non solo persone colte in flagranza di reato, ma anche sospettate di stare per commetterlo, e autorizza perquisizioni senza mandato della magistratura.

E’ del 1975 anche la riforma del sistema penitenziario, che si ispira al recupero sociale del detenuto, prevedendo l’affidamento in prova la servizio sociale e la semilibertà; essa contiene però anche un articolo, il 90, secondo cui il ministro di Grazia e Giustizia ha la facoltà di sospendere tali benefici per gravi motivi di ordine. Questa norma verrà applicata, a partire dal 1977, per i detenuti politici, implicando, in pratica, la costituzione di carceri “speciali” o “di massima sicurezza”. Questo insieme di provvedimenti, detti legislazione d’emergenza (tuttora in vigore), è stato avversato dalla parte più garantista del Paese, (ed oggi da più parti se ne chiede la revoca).

Nonostante questa prova di forza da parte del Parlamento italiano, è difficile stabilire chi, tra Stato e anti-Stato, abbia vinto questo braccio di ferro, forse entrambi sono stati in qualche modo perdenti: le BR perché, come scrive Giorgio Bocca, “nella vicenda terroristica c’è un enorme equivoco di partenza: che questo della società tardo industriale, sia uno stato articolato, diciamo un congegno di precisione che si può far saltare, e non l’immane, complessa, pachidermica sovrapposizione di interessi, di ceti, di redditi, di privilegi grandi e piccoli, di favori, di difese, di solidarietà corporative e di gruppo che procede, magari verso la catastrofe, ma inarrestabile.”

Ma perdono anche le istituzioni democratiche, perché, sebbene la vicenda terroristica non abbia provocato quel grande spostamento di consenso elettorale in senso conservatore, come era nelle mire dei servizi segreti, sicuramente però “gli anni della lotta armata hanno avuto conseguenze specifiche sui movimenti collettivi, sul sindacato, e in generale nella classe dirigente della sinistra. In questi settori la colpevolizzazione della sinistra -quale in qualche modo responsabile del terrorismo attraverso l’“album di famiglia” del suo passato ideologico e delle biografie di militanti- ha avuto successo: il movimento sindacale si è fortemente indebolito, i comportamenti collettivi critici si sono fortemente attenuati, si è verificato il cosiddetto “riflusso”, i gruppi dirigenti della sinistra non hanno saputo elaborare una interpretazione dello sviluppo del partito armato che consentisse loro di collocarsi in una posizione non difensiva, ma offensiva sul piano culturale.” (G. Galli)


 

 

PARTE SECONDA

 

I SERVIZI SEGRETI

 

 

IL DOPOGUERRA: NASCONO I MODERNI SERVIZI SEGRETI

Risale al 1863 la creazione del primo ufficio di direzione di attività informativa presso lo Stato Maggiore dell’Esercito (ufficio “I”). Esso aveva il compito di reperire dati sulla zone di interesse militare, per poi raccoglierle in volumetti riservati.

Nell’ottobre del 1925, già istituita ufficialmente la dittatura di Mussolini, il servizio segreto militare fu riformato: nacque il Sim (Servizio informazioni militari), alle dirette dipendenze del capo di stato maggiore.

Nel frattempo, nel 1919, era stata creata la Divisione affari generali e riservati, che nel 1927 venne articolata in tre sezioni: Movimento sovversivo, Ordine pubblico, Stranieri. Dalla prima sezione dipendeva anche l’Ovra, la polizia politica segreta del regime fascista.

Nascono così i servizi segreti in Italia, già separati in una struttura militare e in una civile, ma sarà nel dopoguerra che essi assumeranno nel nostro Paese come nel resto del mondo industrializzato, un’importanza ben maggiore di quella avuta in precedenza.

Per tutto il 1946 e il 1947 i servizi segreti italiani ufficialmente non esistono, sono gli Stati Uniti ad impedire la loro ricostituzione fino a quando non sia certa la collocazione dell’Italia nella sfera occidentale.

Dopo il risultato elettorale del 18 aprile 1948 inizia la loro ristrutturazione: viene nominato il nuovo capo dell’Ufficio informazioni Giovanni Carlo Re, che, insieme al ministro della difesa, Pacciardi, costituì il primo servizio segreto della Repubblica, il Servizio informazioni forze armate (Sifar).

Si sperava nella costituzione di un organo aderente ai princìpi della nuova Costituzione, invece il Sifar ebbe una struttura pressoché identica al Sim.

La guerra fredda accelerò il processo di passaggio dalla polizia segreta ai servizi di informazione e di “sicurezza”, ovvero da una organizzazione molto semplice, che combatte forme circoscritte di contestazione politica come il movimento anarchico, a strutture molto complesse che agiscono in ambiti come lo spionaggio industriale e il traffico internazionale di armi.

In Italia il vero cambiamento avvenne nel 1958: fino a quel momento il perfetto controllo delle classi egemoni su quelle subalterne non aveva fatto sentire la necessità dell’intervento di strutture segrete. Nel ‘58, con lo sgretolarsi degli equilibri centristi, Fernando Tambroni avvertì l’esigenza di creare penetranti strutture di controllo della vita politica; strumento di questo e di altri disegni fu il gen. Giovanni De Lorenzo.

Fu questo il primo segno dell’intrecciarsi di due processi che da quegli anni in poi scorreranno paralleli: da un lato l’allargamento della partecipazione politica, dall’altro l’estensione dei controlli illegali da parte dei servizi di “sicurezza”. Se ne avrà conferma dopo il 1968, quando la spinta a sinistra provocata dal movimento studentesco e dall’autunno caldo, convinse i responsabili delle strutture segrete della necessità di un’azione più incisiva, che sembra abbia contemplato al suo interno anche le stragi.

 

 

I SERVIZI “DEVIATI”

L’espressione servizi deviati viene usata per indicare persone o settori dei servizi segreti che avrebbero compiuto azioni illegali per fini diversi dalla salvaguardia delle istituzioni democratiche. Ma, mentre nelle dichiarazioni ufficiali si è sempre tenuto a sottolineare l’episodicità di avvenimenti di questo tipo, il lungo arco di tempo costellato da fatti poco chiari e l’elevato numero di persone coinvolte fanno sorgere legittimamente il sospetto che un certo tipo di “deviazioni” facessero parte di una strategia politica complessiva, più che essere opera di singoli che avrebbero agito per scopi privati. Dal dopoguerra in poi l’attività dei nostri servizi segreti è sempre stata legata a doppio filo a quella dei servizi statunitensi (CIA), è quindi necessario osservarle parallelamente per tentare di trovare il filo conduttore che lega molti dei misteri rimasti irrisolti dell’ultimo cinquantennio italiano.

Con l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, le vicende politiche del nostro paese sono state sempre tenute sotto controllo dalla Nato, struttura tesa a conservare lo status quo politico dei paesi aderenti.

L’Italia ha inoltre sempre occupato una posizione strategica nell’area occidentale, per la sua vicinanza tanto all’Est comunista (si pensi alla Jugoslavia di Tito) quanto al mondo arabo; essa possedeva inoltre il più forte partito comunista tra i paesi del Patto Atlantico.

Non a caso dunque gli Stati Uniti, già da prima delle elezioni dell’aprile ‘48, programmarono un piano d’intervento militare, con l’occupazione della Sicilia e della Sardegna, in caso non solo d’invasione da parte degli eserciti comunisti, ma anche di vittoria elettorale del PCI. I documenti comprovanti questi piani d’intervento (ovvero il “National Security Council” 1/3, dell’8 marzo 1948 e del 5 gennaio 1951) sono ora consultabili, tranne però nei punti più delicati e importanti, tuttora coperti da segreto di Stato.

Dopo la vittoria dei moderati alle elezioni del ‘48, ed alcune probabili rassicurazioni fornite dal presidente del Consiglio De Gasperi, gli accordi tra Italia e USA sono diventati più sottilmente invasivi, e le strategie più politiche che militari.

Dalla fine degli anni ‘50, ad esempio, si comincia ad usare in maniera massiccia lo strumento della “schedatura” delle personalità politiche, economiche e sindacali del Paese: noti (anche dalla CIA) sono i fascicoli Scelba-Tambroni, che su consiglio del ministro Andreotti furono archiviati in una sezione speciale del SIFAR in modo da rimanere quanto necessario segreti.

Ma una vera e propria opera di schedatura generalizzata fu avviata dal gen. De Lorenzo che, nominato capo del Sifar nel 1955 su sollecitazione del presidente della Repubblica Gronchi, sarà per molti anni il protagonista delle pagine più torbide e misteriose della storia del “Belpaese”. Rimase alla guida del Sifar per quasi sette anni, il periodo più lungo di permanenza di una stessa persona a capo del servizio segreto, non casualmente coinciso con il settenato presidenziale di Gronchi.

Recentemente l’apertura di parti degli archivi segreti statunitensi ha permesso di fare almeno parzialmente “chiarezza” sui primi anni della gestione De Lorenzo: sembra che egli avesse preso “concreti impegni con i servizi segreti americani, ufficialmente all’insaputa dello stesso governo italiano, per diminuire con ogni mezzo il potere del partito comunista.” (G. De Lutiis)

Agli stessi anni risale l’installazione di microfoni nella stanza del Quirinale e nella biblioteca del Vaticano per registrare i colloqui privati del Presidente della Repubblica e del Papa.

La schedatura verrà usata per molti anni, e in maniera così massiccia da costituire una delle attività in cui i servizi segreti occupano la maggior parte delle loro energie. Nel corso degli anni ne vanno mutando però le caratteristiche, che assumono contorni sempre più inquietanti: le notizie riportate cominciano ad essere sempre in maniera maggiore riferite alla sfera privata delle persone schedate, inoltre, mentre nei primi anni i documenti recavano tutti l’indicazione della fonte, successivamente vennero resi anonimi, in maniera tale da non poter risalire all’ufficio che li aveva diramati.

Per avere un’idea di quanto in quel periodo ogni norma riguardante il Sifar fosse violabile e violata, basti pensare che nel ‘61 De Lorenzo fu promosso generale di corpo d’armata e, sebbene statutariamente avrebbe dovuto lasciare l’incarico presso i servizi segreti, vi restò fino al ‘62, fino a quando cioè esso non fu ricoperto da Viggiani, un suo fedelissimo, per la nomina del quale non si esitò a falsificare alcuni documenti che avrebbero altrimenti dimostrato la sua non idoneità. Inoltre quando De Lorenzo fu nominato comandante dell’arma dei Carabinieri, oltre l’80% dell’organico dei servizi era composto da carabinieri.

Intanto il centrosinistra diventa una prospettiva politica reale, anche appoggiata dal presidente degli Stati Uniti Kennedy, ma fortemente ostacolata dai servizi americani.

Non era più possibile, però, pensare a un tipo di controffensiva consueta, le tecniche dovevano essere affinate, e il rappresentante di questo “nuovo corso”  in Italia fu il gen. Aloja. Nominato capo di stato maggiore dell’esercito nel ‘65, era esponente dell’area più strettamente atlantica delle forze armate. Lo scontro con De Lorenzo si profilava come inevitabile: essi erano infatti i portatori di due concezioni profondamente divergenti sulle modalità di condurre una guerra contro il pericolo rosso in Italia.

Mentre De Lorenzo era convinto che a questo scopo fosse necessario semplicemente un valido servizio segreto appoggiato da una ridotta forza militare, Aloja era sostenitore di una nuova visione del rapporto tra guerra e pace, in cui i confini tra le due erano destinati ad assottigliarsi progressivamente, in vista di un nuovo tipo di guerra, la cosiddetta guerra psicologica, che avrebbe richiesto un diverso tipo di preparazione delle truppe, un addestramento anche ideologico.

Il periodo della strategia della tensione in Italia seguirà di poco questi anni e dimostrerà come la natura degli scontri all’interno dello Stato fosse radicalmente mutata come “profetizzato” da Aloja.

Intanto nel 1967 esplose il caso del tentativo di colpo di stato ordito da De Lorenzo nel ‘64, il piano Solo. Dopo due anni di battaglie parlamentari, nel marzo ‘69 venne costituita una commissione d’inchiesta che indagasse sullo scandalo. L’accaduto andava trattato con estrema delicatezza, e la posta in gioco era sicuramente molto alta: la relazione conclusiva apparve timida sul piano dell’attribuzione delle responsabilità ma avanzò proposte concrete per una riforma dei servizi segreti e per una drastica riduzione dei fascicoli segreti. La riforma dovrà aspettare però il ‘77 prima di essere attuata, e i fascicoli verranno bruciati solo dopo tre anni, e soprattutto dopo essere stati in gran parte fotocopiati.

Già nel ‘66, con la fine del Sifar e la nascita del Sid (Servizio informazioni difesa), si era sperato in un cambiamento nella gestione dei servizi, affidata ora ad Eugenio Henke, ma gli avvenimenti degli anni successivi lasciarono chiaramente intendere la vanità di questa speranza. Il Sid nacque infatti da un lato senza una previa discussione parlamentare su struttura, compiti e limiti, dall’altro senza che ci fosse il minimo spostamento degli uomini che erano stati nel Sifar.

Henke fu colui che più di tutti si animò perché gli scandali della gestione De Lorenzo divenissero pubblici, ma si trattò, come lo definisce De Lutiis, di una destabilizzazione controllata, gestita in modo tale da emarginare gli uomini di De Lorenzo, ma di non coinvolgere quelle parti del potere politico cui lo stesso De Lorenzo si era appoggiato.

L’ufficio “D” (sezione rilevante dei servizi) passa intanto, nel ‘68, nelle mani del colonnello Federico Gasca Queirazza, che aveva inquietanti contatti con la destra neofascista, come dimostra un interrogatorio di Guido Giannettini, elemento di spicco della destra eversiva, in cui egli dichiara di aver inviato, nel maggio del ‘69, un rapporto all’ufficio “D” in cui si preannunciava che bande autonome neofasciste avrebbero compiuto attentati in luoghi chiusi; non si capisce né perché Giannettini avrebbe dovuto rivelare un progetto così compromettente, né perché questo non sia pervenuto dall’ufficio “D” alla magistratura.

Ma le ombre più pesanti si addenseranno sui servizi segreti dopo la strage di piazza Fontana, quando saranno al centro di grosse polemiche per i contatti con la destra eversiva, e per gli inquinamenti e le omissioni riguardo alle indagini sulla strage stessa.

Nel 1970 il comando dei servizi passa dalle mani di Henke a quelle di Vito Miceli, che a soli due mesi dalla sua nomina è fortemente sospettato di un avvenimento grave come la copertura offerta ai congiurati del golpe Borghese (7 dicembre 1970). Tra il ‘71 e il ‘74 si avalla, sia da parte della stampa sia da parte della magistratura romana, la tesi che il tentato colpo di Stato sia opera di un gruppo di velleitari nostalgici senza seri collegamenti, così l’istruttoria viene praticamente insabbiata. Solo nel ‘75, dopo l’allontanamento di Miceli dal servizio, arriveranno nelle mani della magistratura importanti prove fino ad allora rimaste nelle mani del Sid.

Il lato più oscuro di quella vicenda, la cosiddetta notte dell’Immacolata, è che ai congiurati arrivò immediato e inatteso l’ordine di ritirarsi, ma non si sa da chi e perché, segno che anche Borghese stesso era stato scavalcato e che le motivazioni reali dell’azione si celavano alle spalle anche di chi vi partecipò. La commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2 ha raccolto alcuni indizi che farebbero pensare alla presenza di Licio Gelli, oscura figura di massone, dietro questa decisione, ma è anche provato che Gelli in quel periodo avesse forti contatti con i servizi segreti.

Il tentato golpe Borghese è l’ultimo episodio di conclamato attacco alle istituzioni dello Stato in vista di una possibile presa del potere: d’ora in poi, sarà sempre più sottile la demarcazione tra legalità e illegalità, e a tentativi di presa del potere in prima persona si sostituiranno appoggi a gruppi di potere (non solo politici e non solo italiani) tesi a garantire un favorevole immobilismo dello Stato.

Si comincia così, dal ‘72 in poi, a parlare di servizi paralleli, di organizzazioni segrete più o meno legali, in cui l’attività eversiva si svolge in termini di questa nuova guerra chiamata guerra psicologica.

Una delle più note organizzazioni di questa natura fu certamente La rosa dei venti, probabilmente emanazione di un servizio segreto sovrannazionale della Nato, e sicuramente legata a doppio filo con il servizio italiano.

Una parte delle notizie pervenuteci sulla struttura e l’attività di questi nuovi gruppi eversivi, viene dalle dichiarazioni rese ai magistrati da Roberto Cavallaro, un personaggio dall’oscuro passato, che nel 1974 “parlò dell’esistenza di una organizzazione parallela e spiegò che essa non era da identificarsi con la Rosa dei venti. A proposito della struttura dell’”organizzazione” egli confermò che nel gruppo dirigente erano servizi segreti italiani e americani, ma anche alcune potenti società multinazionali. Essa gestiva, attraverso intermediari, i gruppi terroristici. La finalità non era un colpo di Stato ma una strategia del disordine e del terrore che giustificasse un intervento volto a ristabilire l’ordine. Alla domanda circa l’epoca nella quale l’“organizzazione” avesse cominciato ad operare, Cavallaro rispose facendo riferimento al 1964, dopo l’abbandono del “piano Solo” del generale De Lorenzo...” (De Lutiis).

Si parla quindi di organismi per un certo verso istituzionali, perché previsti da protocolli ufficiali, anche se segreti, dell’alleanza atlantica, ma che d’altra parte coordinavano l’attività di gruppi eversivi come a Rosa dei venti; generalmente questi organismi venivano detti organismi di sicurezza.

Queste strutture che si beneficiavano di arruolamenti tanto di militari quanto di civili, erano spesso volte ad impedire la conquista delle leve effettive dello Stato da parte delle sinistre, in nome di una guerra sempre in corso tra il mondo capitalista e quello comunista, nella quale ogni mezzo poteva considerarsi lecito.

Una svolta sembrò avvenire nel 1974, quando il giudice Tamburino da Padova spedì al capo del Sid Miceli un avviso di reato per cospirazione politica, e il 31 ottobre spiccò mandato di cattura. Questo evento, insieme alle inchieste dei magistrati D’Ambrosio a Milano e Violante[6] a Torino, accese grandi speranze, che però furono disattese in meno di due mesi. L’istruttoria venne infatti trasferita da Padova a Roma dove venne unificata a quella sul golpe Borghese: il quadro cospirativo che Tamburino stava scoprendo venne frantumato in singoli episodi di cui non si volle vedere la connessione, e l’istruttoria fu rapidamente insabbiata.

Miceli comunque non smentì mai l’esistenza di una struttura segreta che operava alle spalle degli stessi servizi, sulla quale però non fornì alcuna informazione a causa del segreto politico militare che la copriva, dichiarandosi però pronto ad una deposizione nel caso in cui questo fosse caduto.

L’autorizzazione del governo non arrivò mai, e Miceli fu scarcerato.

Da una deposizione di Miceli resa al giudice Antonio Abate nel 1977 durante il processo sul golpe Borghese:

“Lei in sostanza vuole sapere se esiste un organismo segretissimo nell’ambito del Sid. [...] C’è, ed è sempre esistita, una particolare organizzazione segretissima, che è a conoscenza anche delle massime autorità dello Stato. [...] Si tratta di un organismo inserito nell’ambito del Sid, comunque svincolato dalla catena di ufficiali appartenenti al servizio “I”, che assolve compiti pienamente istituzionali; anche se si tratta di attività ben lontana dalla ricerca informativa. Se mi chiedete dettagli particolareggiati, dico: non posso rispondere. Chiedeteli alle massime autorità dello Stato, in modo che possa esservi un chiarimento definitivo”.

Resta da vedere se il fatto che l’organizzazione svolgesse compiti pienamente istituzionali, noti alle massime autorità dello Stato, ridimensioni la gravità dell’esistenza di questa struttura, o se piuttosto non la accresca il fatto che rientrasse tra i compiti pienamente istituzionali un’attività ben lontana dalla ricerca informativa.

Il Sid parallelo dunque esiste, anche se ovviamente non compare in nessun archivio ufficiale. Il suo compito sarebbe di natura operativa, volto cioè ad evitare una possibile gravitazione dell’Italia nell’area del Patto di Varsavia.

Venivano così presumibilmente stilati elenchi di persone sicuramente fedeli alle istituzioni, con prevalenza di medici e di infermieri (indispensabili in caso di insurrezione). La maggior parte di queste persone probabilmente non avrebbero saputo mai di essere in questi elenchi se non in caso di convocazione.

“È una interpretazione assolutamente legalistica che, che tuttavia ci conferma l’esistenza di programmi di intervento che nessun governo ha varato, che nessun parlamento ha esaminato, e che scavalcano gli stessi organismi preposti, cioè prefetti, questori e comandi militari territoriali. C’è poi una considerazione da fare: se realmente questo organismo fosse destinato a difendere le istituzioni da insurrezioni armate o in caso d’invasione, non ci sarebbe motivo di nasconderlo dietro il massimo livello di segretezza” (De Lutiis).

Quello che è probabile è che esso sia stato utilizzato dalla Nato per arginare l’ascesa elettorale delle sinistre negli anni ‘60. La strada del colpo di Stato era ormai impraticabile, per cui era necessario cambiare tattica e vi sono buone ragioni per ritenere che in questa nuova sia rientrata almeno parte della strategia della tensione in Italia. Risale a questi anni l’attività svolta nella base militare di Capo Marrargiu: essa era una base Nato situata nei pressi di Alghero e inaccessibile via terra, utilizzata per addestramenti segreti di militari e civili.

 

 

I SEVIZI SEGRETI E IL TERRORISMO “ROSSO”

Alcune inchieste giornalistiche di quegli anni (intorno al 1976) parlarono di Capo Marargiu come di un campo in cui venivano addestrati eversori, per lo più di estrema destra, ma anche di estrema sinistra e terroristi arabi.

Ma nel 1975 si ha una svolta: il terrorismo cambia colore.

Esplodono le BR, che sono un fenomeno troppo complesso per essere spiegato esclusivamente in termini di infiltrazione da parte dei servizi segreti, ma che comunque ha in sé molti lati oscuri, soprattutto se si tiene presente che nel 1974 Miceli aveva dichiarato in una interrogatorio dinanzi al giudice Tamburino: “Ora non sentirete più parlare del terrorismo nero, ma sentirete parlare soltanto di quegli altri.”

Il primo sentore di una mancanza di limpidezza nell’azione delle BR risale al 1974, al sequestro del giudice Sossi. Diversi aspetti di questa vicenda hanno dato adito a perplessità: l’improvviso rilascio, il fatto che Sossi, liberato a Milano, non si sia rivolto subito alle autorità, ma abbia raggiunto in incognito la sua abitazione di Genova, chiedendo solo lì la protezione della Guardia di Finanza, e in ultimo la dichiarazione di un anonimo ufficiale del Sid rilasciata al settimanale “Tempo” nel ‘76, e comunque mai confermata, in cui si fa riferimento ad un progetto di organizzare un conflitto a fuoco intorno al covo dove era custodito Sossi, che avrebbe eliminato i brigatisti e lo stesso Sossi.

Sempre nel ‘74, l’8 settembre, esattamente un giorno dopo la dichiarazione di Miceli che preavvertiva che da allora in poi si sarebbe sentito “parlare soltanto di quegli altri”, vengono arrestati Curcio e Franceschini, grazie al prezioso contributo di Silvano Girotto, uomo dei servizi infiltrato nell’organizzazione. Solo che questo arresto invece di scompaginare le BR, darà avvio alle loro azioni più sanguinose.

Presumibilmente se la permanenza di Girotto nelle BR fosse stata più lunga (l’operazione durò due mesi in tutto), avrebbe permesso di frantumare totalmente la struttura terroristica, ma forse l’obiettivo da raggiungere era solo quello di isolare la vecchia guardia. Al termine dell’operazione Girotto fu trasferito dal Sid in una località segreta in Arabia Saudita; prima di partire, però, lasciò al giudice istruttore una testimonianza a futura memoria, in cui si leggono informazioni molto gravi come: “Curcio mi disse che c’era l’intenzione di giustiziare Sossi, ma poi le BR [...] avevano saputo da una fonte sicura del Ministero dell’Interno che i carabinieri avevano avuto l’ordine di uccidere tutti, anche Sossi”[7].

Nel 1976 le BR uccidono per la prima volta, la vittima è il procuratore generale di Genova Coco.

Il fatto che l’uccisione precedesse di soli dodici giorni le elezioni politiche, sembrò una sospetta concomitanza, soprattutto perché per quelle elezioni si paventava il sorpasso della DC da parte del PCI, e l’omicidio parse volto a spaventare l’elettorato moderato.

Peraltro negli stessi anni (‘75-’76) in cui avvenne la metamorfosi delle BR, in Spagna si sviluppò un gruppo terroristico “rosso” che, si sarebbe scoperto dopo, era invece pilotato dall’ex capo della polizia politica franchista Roberto Conesa.

 

LA RIFORMA DEL ‘77

Il 24 ottobre 1977 viene finalmente varata la riforma dei servizi segreti.

Essa manifesta lo sforzo compiuto dal Parlamento per conciliare le esigenze di un sevizio segreto e i diritti di controllo propri di uno Stato democratico.

Per la prima volta consistenti cambiamenti sono operati anche da un punto di vista strettamente giuridico: la sola autorità responsabile del funzionamento dei servizi è il presidente del Consiglio dei Ministri, affiancato dalla consulenza di un Comitato esecutivo per i servizi di informazione e di sicurezza (Cesis), da lui stesso presieduto; il presidente del Consiglio nomina inoltre il segretario del Cesis, che ha il compito di coordinare l’attività dei due servizi segreti: il Servizio per le informazioni e la sicurezza militare (Sismi) e il Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica (Sisde). Il Cesis ha inoltre funzione di raccordo con le forze armate e con i servizi stranieri.

Muta profondamente anche la disciplina del segreto di Stato:

“I pubblici ufficiali, gli impiegati e gli incaricati di pubblico servizio conservano l’obbligo di astenersi dal disporre su quanto coperto da segreto di Stato, ma se l’autorità dinanzi alla quale dovrebbero testimoniare non ritiene fondato questo comportamento, ha diritto di interpellare il presidente del Consiglio. Se quest’ultimo non conferma la dichiarazione di segreto, i pubblici ufficiali sono obbligati a deporre. Se invece egli conferma il segreto, ne deve dare comunicazione alle Camere con relativa motivazione e al Comitato parlamentare, al quale deve indicare anche le ragioni essenziali” (De Lutiis).

La nuova normativa era certamente molto avanzata, anche rispetto alla legislazione in materia degli altri Paesi.

Ma già nei mesi immediatamente successivi, con la nomina dei dirigenti dei due servizi, andò impallidendo l’idilliaco scenario prospettato dalla legge di riforma.

Si manifestò prima di tutto l’opposizione dei dirigenti dell’ex Sid, a cedere archivi e attrezzature al nuovo Sisde; inoltre a capo del Sismi fu nominato il gen. Giuseppe Santovito, che era stato stretto collaboratore del gen. De Lorenzo e che comparirà nelle liste della P2, e a capo del Sisde il gen. Giulio Grassini, un altro militare dunque, e per di più di grado inferiore a Santovito. Si delineò così quella subalternità del Sisde al Sismi che durerà per anni.

Ritardi nell’insediamento fecero sì che dal 13 gennaio (giorno della nomina di Grassini) al 27 giugno 1978, il Sisde fosse praticamente inesistente: in quel periodo si sviluppò la tragedia del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro.

In una sensazionale intervista pubblicata sul quotidiano “La Repubblica” il 19 maggio 1978, un anonimo (ma la cui identità si dice essere ben conosciuta dalla direzione del giornale) dirigente del Sismi dichiara:

“Abbiamo lavorato sulle lettere che Aldo Moro ha scritto dalla prigionia. [...] Abbiamo raggiunto la prova che [...] Aldo Moro ha fatto numerose e gravi rivelazioni ai suoi carcerieri a proposito di uomini, cose e situazioni, sia di carattere politico sia di carattere militare. [...] Comunque l’esecutivo è stato informato. [...] I responsabili della sicurezza atlantica sanno che Aldo Moro era a conoscenza di importanti segreti. [...] I paesi dell’Alleanza sono in grave allarme. E’ in discussione un riesame della posizione stessa dell’Italia nell’Alleanza.”

“Voi pesate che con le BR agiscano servizi segreti stranieri ?”

“Noi lo abbiamo sempre sostenuto. Ci replicano che le nuove BR non sono più le vecchie: ma a maggior ragione! E non parliamo [...] delle possibili convergenze di interessi stranieri diametralmente opposti, ma con il comune obbiettivo di tenere i comunisti italiani fuori dai piedi.”

Dopo la riforma, quindi, la situazione dei servizi era innanzi tutto di forte squilibrio di personale e di attrezzature tra un Sismi che avrebbe dovuto vigilare contro improbabili attacchi alla nostra integrità territoriale, e un Sisde inadeguato nei confronti di un attacco allo Stato tanto reale quanto pericoloso come il terrorismo. A ciò vanno sicuramente aggiunte le implacate polemiche sulla mancanza di trasparenza. Il problema che si sperava risolto con la riforma, si ripresentò in forma di un vero e proprio scandalo nella primavera del 1981, quando una perquisizione nella villa di Licio Gelli portò al ritrovamento di ingente materiale d’archivio, tra cui alcuni elenchi di iscritti alla loggia P2.

Quello della P2 è uno dei misteri più fitti che attraversano questi anni (formalmente dal 1966), emergendo di tanto in tanto come uno dei più forti e più oscuri centri di potere del Paese, ma senza che se ne riesca a costruire un quadro completo riguardo a uomini e attività.

I sequestri effettuati nel 1981 mostrano come la P2 fosse probabilmente anche la copertura di un nucleo di potere interno al servizio segreto ufficiale: nelle liste comunque vengono trovati i nomi di molte tra le più alte cariche dei servizi (sia “vecchi” sia “nuovi”) e delle forze dell’ordine.

Sembra che dopo il ‘77 la P2 si fosse trasformata in una sede di raccordo delle strutture parallele che gestivano il potere reale in Italia. Nel frattempo la figlia di Gelli era stata arrestata all’aeroporto di Fiumicino con una valigia contenente vari documenti riservati, alcuni dei quali dimostravano l’utilizzazione dei servizi segreti per fini politici di parte, anche dopo il ‘77.

Questa evidente compenetrazione tra una organizzazione segreta e i più delicati organi di sicurezza, chiedeva una improrogabile decisione politica: il 18 luglio dello stesso anno, infatti, il Consiglio dei Ministri varava una gigantesca epurazione degli organi militari.

I servizi segreti ripresero vitalità, e riuscirono a portare a termine dei duri attacchi contro organizzazioni terroristiche, annullandone praticamente l’attività.

 

GLI ANNI OTTANTA E GLADIO

Il 19 ottobre 1984 scattano le manette ai polsi del gen. Pietro Musumeci, ex capo dell’ufficio controllo e sicurezza del Sismi, e di altri funzionari o ex funzionari del Sismi: le accuse, gravissime, sono di associazione a delinquere, peculato, favoreggiamento personale, interesse privato in atti di ufficio e detenzione di armi ed esplosivi.

Nella sentenza, emessa nel luglio del 1985, si legge: “[...] si era formato un centro di potere arbitrario e occulto, comprendente più persone, alcune organicamente inserite nel Servizio ed altre esterne ad esso, ma tra loro unite dall’intesa programmatica di abusare del Servizio stesso per conseguire finalità improprie ed incompatibili con quelle istituzionali.”

Nel 1986 tutti gli imputati vengono assolti in Appello dall’associazione a delinquere, e condannati solo per reati minori.

In questi anni torna come oggetto di polemiche il segreto di Stato: esso era stato infatti opposto a rivelazioni riguardanti alcune indagini su estremisti di destra accusati di strage.

Questo episodio fu il segno di una continuità d’atteggiamento da parte dei Servizi, anche dopo la fine delle gestione piduista, continuità rivelata anche dai sistematici tentativi di depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna dell’agosto 1980.

Questo persistere di polemiche e scandali nonostante rilevanti ricambi di regole e uomini, fanno apparire insostenibile la tesi della semplice presenza all’interno del Servizio di “traditori” dediti ad attività “devianti” per loro interesse personale, soprattutto se si pone attenzione al fatto che tutte le presunte “deviazioni” avvenute dal ‘59 in poi hanno avuto come protagonisti le principali cariche del servizio segreto.

Un altro episodio di questi anni mai chiarito è la strage di Ustica, del DC9 inabissatosi il 27 giugno 1980.

In questa circostanza sono gli uomini dell’Aeronautica Militare ad essere coinvolti, con omissioni e depistaggi, e con l’avanzamento di ipotesi palesemente false, come quella di un cedimento strutturale dell’aereo.

Quale segreto irriferibile si nasconde dietro questo comportamento dell’Aeronautica? L’ipotesi che pare oggi più accreditata coinvolgerebbe un paese amico e alleato, autore di un errore di bersaglio, ma nulla di più si sa sulla sciagura.

Nell’ottobre del 1990 un evento almeno in apparenza fortuito fa ritornare alla ribalta il caso Moro: in via Montenevoso a Milano, nel corso della ristrutturazione di un appartamento che era stato covo delle BR, vengono ritrovati documenti, armi e denaro risalenti al periodo del sequestro Moro. La prima domanda è da chi e quando quel materiale fosse stato collocato dietro quel pannello di gesso, e da chi e perché fosse stato fatto ritrovare.

“Un fatto è certo: la parte di documentazione trovata in via Montenevoso nell’ottobre 1990 non pare espunta a caso dal resto dei documenti di Moro. Vi sono riferimenti molto critici a faccende molto delicate, quali i finanziamenti della CIA alla Democrazia Cristiana, i numerosi scandali che scossero l’Italia negli anni ‘70 e, non ultimo, un accenno abbastanza esplicito alla struttura occulta della NATO” (De Lutiis).

Ma l’eco suscitata dal ritrovamento dei documenti si spense subito per il sopraggiungere di un nuovo terremoto sulla storia delle istituzioni italiane.

Il 18 ottobre 1990, infatti, il presidente del Consiglio Andreotti invia al Presidente della Commissione parlamentare sulle stragi un documento dal titolo “Le reti clandestine a livello internazionale”.

Nella relazione si parla di forme non convenzionali di difesa ipotizzate dalle nazioni occidentali dopo la seconda guerra mondiale in caso di occupazione nemica; queste prevedevano una rete occulta di resistenza, creata in Italia nel novembre 1956 tramite un accordo tra il Sifar e il servizio segreto americano.

Il nome di questa rete italiana era GLADIO, e comprendeva nuclei informativi, di sabotaggio, di propaganda e di guerriglia.

Per la prima volta un presidente del Consiglio affermava l’esistenza di una articolata struttura parallela ai servizi segreti.

Pochi giorni dopo entra in circolazione un’altra stesura del documento, purgata di alcuni importanti riferimenti alla CIA, e con tutti i tempi verbali trasposti dal presente al passato. Non è chiaro se questi “ritocchi” siano stati compiuti per iniziativa del presidente della Commissione stragi Gualtieri, o dallo stesso presidente Andreotti.

Da questo momento in poi le dichiarazioni si succedono con rapidità inusitata, illuminando risvolti sempre più impensabili: il 24 ottobre Andreotti alla Camera dichiara che la struttura occulta esiste tuttora; il 27 ottobre il presidente della Repubblica Cossiga da Edimburgo conferma di aver avuto un ruolo di primo piano nella gestione della struttura dalla fine degli anni sessanta, e aggiunge: “[...] Considero un grande privilegio [...] il fatto di essere stato prescelto per questo delicato compito. E devo dire che sono ammirato dal fatto che il segreto sia stato mantenuto per quarantacinque anni”[8].

Qualunque sia stato il ruolo preciso di Gladio, rimane segno gravissimo che al Parlamento sia stato sottratto l’esercizio delle proprie funzioni fondamentali in una materia tanto delicata e di così grande rilievo internazionale.

Inoltre sembra probabile che la struttura non sia entrata in funzione esclusivamente per scongiurare invasioni nemiche, ma, a detta di un ufficiale del Sifar, “anche rispetto a moti di piazza rilevanti”[9].

Il 29 novembre il capo di Stato Maggiore del Sismi, generale Paolo Inzerilli, dichiara di aver ricevuto una nota del Ministero della Difesa che, su disposizione del presidente del Consiglio, ordina di sciogliere la struttura Gladio.

Questo non impedirà di scoprire, però, almeno una parte del ruolo giocato da Gladio, come la sua connessione con il piano Solo; (cfr. la relazione del presidente della Commissione stragi Gualtieri del 13/12/90).

 

 

CONCLUSIONI

 

Sembra essere questo l’ultimo (in ordine temporale) tassello di quanto è finora noto di una trama operante al di sotto delle istituzioni democratiche e costituente uno dei maggiori centri di potere in Italia.

La quantità straordinaria di “deviazioni” presente nel servizio segreto italiano rispetto a quelli degli altri Paesi, sembra trovare le sue ragioni, dunque, in un distorto meccanismo secondo il quale gli uomini dei servizi si trovano a dover compiere un doppio, e spesso contraddittorio giuramento di fedeltà: alla Repubblica Italiana e a servizi militari internazionali.

Così conclude Giuseppe De Lutiis il suo diluviale libro sulla storia dei servizi segreti in Italia: “A questo punto è forse il caso di chiedersi quale sia la funzione dei servizi segreti in una società democratica: sono destinati a svolgere sempre e soltanto azioni devianti o esiste un loro spazio in difesa della legalità? Un esecutivo maggiormente consapevole dei propri doveri di controllo sarebbe sufficiente ad impedire la possibilità di “deviazioni” o le caratteristiche materiali, fisiologiche di questi organismi li portano inevitabilmente a sfuggire al controllo dei rispettivi governi? Ciò che noi chiamiamo deviazione, è tale anche dal punto di vista del servizio? [...] Dopo aver esaminato la loro attività prevalente nell’ultimo mezzo secolo si potrebbe porre il problema se non sia per caso opportuno abolire più che riformare un organismo che ha fornito prove così tangibili di infedeltà alla Costituzione repubblicana.

Questa però è soltanto una esercitazione teorica nel mondo del futuribile. Non è pensabile che uno Stato possa fare a meno dei servizi segreti proprio in un periodo storico nel quale essi sono andati acquisendo sempre maggiore importanza. I servizi sono, insomma, un male inevitabile. Non solo, ma è utopistico pensare a degli organismi che agiscano con sistemi assolutamente legali, poiché questo li trasformerebbe in inutili doppioni della polizia. (...) La vera chiave per contenere il prepotere dei servizi è forse una più precisa delimitazione del segreto di Stato. (...) Negli anni sessanta e settanta in Italia, il segreto è servito a coprire gravi compromissioni e, a volte, autentiche complicità.”

 

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CRONOLOGIA

 

- 27 DICEMBRE 1955: il gen. De Lorenzo viene nominato capo del Sifar.

- FEBBRAIO 1962: primo governo di centro-sinistra

- 14 LUGLIO 1964: data programmata per il compimento del piano Solo.

- NOVEMBRE 1965: il Sifar si trasforma in Sid.

- 1966: nasce la loggia massonica P2, con a capo Licio Gelli.

- 12 DICEMBRE 1969: strage di piazza Fontana a Milano.

- 15 DICEMBRE 1969: Giuseppe Pinelli precipita dal quarto piano della questura di Milano e muore.

- 16 APRILE 1970: i Gap (il primo gruppo di sinistra a propugnare la lotta armata) si inseriscono nel circuito RAI-TV, facendo il primo comunicato pubblico.

- OTTOBRE 1970: il gen. Vito Miceli viene nominato capo del Sid.

- 7 DICEMBRE 1970: tentato golpe Borghese.

- 14 MAGGIO 1972: muore l’editore Giangiacomo Feltrinelli sistemando             una carica di esplosivo.

- 17 MAGGIO 1972: omicidio Calabresi.

- 31 MAGGIO 1972: strage di Peteano.

- 17 MAGGIO 1973: strage di via Fatebenefratelli a Milano.

- 18 APRILE 1974: rapimento Sossi.

- 12 MAGGIO 1974: referendum sul divorzio.

- 28 MAGGIO 1974: strage di piazza della Loggia a Brescia.

- 4 AGOSTO 1974: strage sul treno Italicus.

- 8 SETTEMBRE 1974: arresto di Curcio e Franceschini.

- 31 OTTOBRE 1974: arresto del gen. Vito Miceli.

- 18 FEBBRAIO 1975: Renato Curcio evade dal carcere di Casale Monferrato.

- 5 GIUGNO 1975: Mara Cagol rimane uccisa in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Qualche tempo dopo viene arrestato definitivamente Renato Curcio.

- 8 GIUGNO 1976: le BR uccidono il procuratore Francesco Coco.

- 24 OTTOBRE 1977: viene varata la legge di riforma dei sevizi segreti.

- 8 MARZO 1978: si apre a Torino il processo contro le BR.

- 16 MARZO 1978: le BR rapiscono Aldo Moro.

- 9 MAGGIO 1978: Moro viene ucciso.

- 7 APRILE 1979: si apre il processo contro Autonomia Operaia.

- 27 GIUGNO 1980: strage di Ustica.

- 2 AGOSTO 1980: strage di Bologna.

- 17 MARZO 1981: le liste degli iscritti alla P2 vengono sequestrate nella villa di Gelli e rese pubbliche.

- 13 MAGGIO 1981: attentato al Papa Giovanni Paolo II ad opera di Ali Agca.

- 23 DICEMBRE 1984: bomba sul “rapido 904”, la strage di Natale.

- 18 OTTOBRE 1990: Andreotti parla per la prima volta, in una relazione al presidente della commissione stragi, di GLADIO.

 

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BIBLIOGRAFIA

 

- AA.VV., “La strage di Stato”, Roma 1970

- G.Bocca, “Il terrorismo italiano 1970-1978”, Milano 1978

- P.Craveri, “La Repubblica dal 1958 al 1992”, Milano 1996

- D.Della Porta (a cura di), “Il terrorismo di sinistra”, Bologna 1990

- G.De Lutiis, “Storia dei servizi segreti in Italia”, Roma 1991

- G.De Lutiis, “Il lato oscuro del potere. Associazioni politiche e strutture paramilitari segrete dal ‘46 ad oggi”, Roma 1996

- S.Flamigni, “La tela del ragno. Il delitto Moro”, Roma 1988

- G.Galli, “Storia del partito armato 1968-1982”, Milano1986

- G.P.Testa, “Storia dell’Italia delle stragi”, suppl. n°30 di “Avvenimenti”, 1993

- S.Zavoli, “La notte della Repubblica”, Milano 1992

 

 

 

Si ringraziano per la preziosa collaborazione i Professori:

Gerardo Casanova, Massimo Camocardi e M. Antonella Olgiati.

 

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Milano, 25 aprile 1998

 Istituto didattico pedagogico della Resistenza

 

Nuova bine editore  Milano


 

NOTE

 

[1]È tuttavia previsto un nuovo ricorso alla Corte di Cassazione.

[2][Su tale impostazione, non vi è concordanza tra gli studiosi. Vi è infatti chi evidenzia la violenza non solo politica, ma effettuale della borghesia italiana dall’unità in poi, a cui il movimento operaio e contadino cercò sempre di opporre nella sua linea dominante una risposta per quanto possibile “democratica” e “riformista”. In particolare, secondo questa diversa lettura dei fatti, mai nessuno promosse o teorizzò un “partito armato” nei termini e con le modalità delle BR e gruppi limitrofi; ben diversamente la borghesia dominante si comportò, da Rudinì a Mussolini, dalla repressioni garibaldine al governo Tambroni].

[3][La sigla GAP sta per Gruppi di Azione Partigiana e si ispira alle brigate GAP attive durante la Resistenza, dove GAP stava però per Gruppi di Azione Patriottica].

[4]Durante il tentativo di liberazione dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia, (cfr. G.Bocca p. 85).

[5]Luciana Castellina, deputato del PDUP, nel suo discorso alla Camera.

[6]Attuale presidente della Camera dei Deputati.

[7]Atti del processo di Torino del marzo 1978; cfr. Corriere della sera 13/5/78.

[8]Cfr. La Repubblica e Il Manifesto del 28/10/90.

[9]Dichiarazione del gentile. Podda al giudice Mastelloni, cfr. La Repubblica 25/11 e 1/12/90.