Elisa Springer


 

 

 

 

 

 

 

 

Elisa Springer aveva 26 anni quando, il 23 giugno 1944, venne arrestata a Milano dalle SS naziste e successivamente deportata ad Auschwitz con il convoglio in partenza da Verona il 2 agosto 1944.

Salvata dalla camera a gas dal generoso gesto di un kapò, Elisa vive e sperimenta tutto l’orrore del più grande campo di sterminio nazista.

Ben presto ridotta a una larva umana, umiliata e offesa, anche nel corso dei successivi trasferimenti a Bergen Belsen, il campo dove morì tra gli altri Anne Frank [una bambina che la stessa Springer ricorda di aver incontrato nel campo di sterminio], e a Theresienstädt, riuscirà a tenere vivo nel suo animo il desiderio di sopravvivere alla distruzione.

La sua forza e una serie di fortunate coincidenze, le consentono di tornare tra i vivi, dapprima nella sua Vienna natale e poi in Italia, dove all’inizio della persecuzione nazista contro gli ebrei d’Europa, spinta dalla madre, aveva cercato rifugio.

Da questo momento e per cinquant’anni la sua storia cade nel silenzio assoluto: nessuno sa di lei, conosce il suo dramma; nessuno vede (o vuol vedere) il numero della marchiatura di Auschwitz che Elisa tiene ben celato sotto un cerotto.

Il mondo avrebbe bisogno della sua voce, della sua sofferenza, ma le parole non bastano a raccontare il senso del suo dramma infinito e sempre vivo. La sua vita si normalizza, nasce un figlio.

In quegli anni è proprio la maternità il segno della sua riscossa contro i carnefici. Cinquant’anni dopo proprio questo figlio, Silvio, vuole capire, sapere e lei, per amore di madre, ritrova le parole che sembravano perdute.

Unico caso al mondo di un silenzio così profondo che si interrompe con il racconto della storia della sua drammatica vita, morte e rinascita, il libro di Elisa Springer assume il peso di questi testi che sanno parlare agli uomini e alla storia, al cuore e alla mente.

La professoressa Springer, nata a Vienna nel 1918, si è spenta a Matera, nell’Italia meridionale, nel 2004, all’età di 86 anni, dopo aver vissuto lungamente in Puglia e precisamente a Manduria, in provincia di Taranto.

 

[Queste brevi note biografiche, integrate con alcune informazioni tratte da internet, sono estrapolate dalle stesse pagine del libro dell’Autrice, il quale è corredato da un profilo editoriale curato da Fedriano Sessi].

 

 

 

IL SILENZIO DEI VIVI

 

[Milano]. Il 23 giugno 1944, all’ora stabilita suonò il campanello di casa e io, con la lettera già tradotta in mano, mi affrettai ad aprire la porta, Due SS in divisa, a bruciapelo mi dissero: “È lei Elisa Springer?… Si vesta e venga con noi”.

Un brivido scosse tutta la mia persona.

Raccolsi le mie forze per restare calma e lucida.

“No, io sono Elisa Bianchi. Deve esserci un equivoco” risposi.

Mi fu chiesto di mostrare la carta d’identità,ma quando l’ebbero in mano, mi gelarono subito: “Questa è falsa, da chi l’ha avuta? Si vesta e venga con noi. Prenda tutta la sua roba perché le servirà. Si sbrighi”.

Il momento tanto temuto in tutti quegli anni era arrivato.

A nulla erano valse le mie fughe, il peregrinare per mezza Europa. Non potevo sottrarmi al mio destino.

Raccolsi, tremando, tutto ciò che poteva contenere la mia valigia, e scesi con loro. Giù, davanti al portone, due macchine ferme.

Da quella anteriore si affacciò un ufficiale fascista che, guardando verso di me, gridò: “L’avete presa”? Contemporaneamente, rispondendo con un cenno del capo, le due SS mi spinsero a forza verso la seconda macchina. Sul marciapiede di fronte, alcuni passanti si erano fermati a guardare incuriositi. Sentivo su di me il loro sguardo e la loro indifferenza. Volevo gridare, ma non una sillaba mi uscì dalla bocca. La mia lucidità e la mia calma avevano lasciato spazio allo sgomento, alla paura. Mi sentivo smarrita.

Era il 23 giugno ’44: avevo ventisei anni.

Mi fecero accomodare sul sedile posteriore dell’auto e appena salita, mi accorsi della presenza di un’altra ragazza. Mi lanciò uno sguardo sfuggente , non disse una parola. Si sforzava di mantenersi indifferente, ma intuivo il suo imbarazzo. Era la stessa signorina che il giorno precedente mi aveva chiesto la traduzione: era dunque una spia.

Con il coraggio che ancora mi rimaneva, gridai: “Lasciatemi andare, io non ho fatto niente… Non vi basta aver già preso i miei genitori e ucciso mio padre, solo perché ebrei?”

“Così sei anche ebrea…? Sei una spia e sei anche ebrea! Da questo momento devi stare zitta, risponderai dopo a chi di dovere. Hast du verstanden?!” (Hai capito?!) Rispondendomi in questo modo e colpendomi sul braccio, mi misero a tacere. Fu questo un modo molto esplicito per farmi capire cosa mi aspettasse “dopo”.

Condotta nel carcere di san Vittore, ed espletate le formalità, mi relegarono all’ultimo piano, in una cella del quinto raggio. Mi urlarono: “Sta’ zitta e non darci fastidio… Presto verranno a prenderti!” Un sorriso sadico ravvivò il volto dei due guardiani che mi scortavano. Stranamente, notai che la cella era stata lasciata aperta.

“Non ti illudere… verranno a chiuderla di notte”. Quella voce proveniva dal ballatoio: era Vittorio, detenuto ebreo come me, Vittorio Nahim. “Vieni, ti presto gli altri inquilini del ‘palazzo’”.

Così dicendo mi portò nella cella della famiglia Milgrom: madre, padre e due bambini bellissimi, Carmi, di dieci anni, e Rea, di otto. Fui colpita dalla presenza di quelle piccole creature e dal loro modo di stare attaccate alla madre. “Mi chiamo Herta Milgrom” mi disse la donna “e questo è Isaac, mio marito. Qui non siamo soli, siamo tutti amici… Il quinto raggio è occupato da intere famiglie ebree… Durante il giorno, ci è consentito di girare liberamente per i corridoi, in attesa dell’interrogatorio”.

A queste ultime parole, Herta Milgrom cambiò l’espressione del viso. Una via di mezzo tra il malinconico e il preoccupato. Sembrava molto scossa dal pensiero dell’interrogatorio.

(…) [Il 26 giugno ’44 Elisa Springer viene trasferita al carcere di Como, dove subisce torture ed interrogatori. Divide la cella con altre cinque detenute.–NdR-].

Durante la detenzione a Como, subii diversi interrogatori. Le botte, i pugni ricevuti alle spalle, i calci sferrati negli stinchi, mi caricarono di una forza a me sconosciuta: la forza della disperazione. Dovevo resistere. Solo così potevo superare quei terribili momenti. (…)

La mattina del 26 luglio ’44, venni prelevata senza alcuna spiegazione, e con tanta fretta, da non avere il tempo di salutare le mie compagne di cella. Era l’alba e a stento mi accorsi che la piccola Irene era già sveglia e mi guardava, senza riuscire a pronunciare una parola. Lessi nei suoi occhi lo smarrimento e la paura: forse temeva che prendessero anche lei.

Fuori dal carcere un camion attendeva col motore acceso. (…)

Ricondotta nel carcere di San Vittore a Milano, fui rinchiusa fino al 2 agosto ’44, in una cella sporca e buia, in compagnia di una signora, anch’essa ebrea, che piangeva in continuazione. Nei miei ricordi di oggi, forse Emilia C. (…)

Presi tra le mani la testa di quella mamma, la strinsi a me e, per la prima volta dopo tanto tempo, pronunciai con lei lo Shemà Israel [Atto di fede del popolo ebraico verso Dio].

Il 2 agosto 1944, quella preghiera fu ripetuta mentre io, la cara Ferta Milgrom, suo marito Isaac, i loro due bambini, Vittorio Nahim e altri ebrei, venivano trasportati con un camion alla stazione di Verona. Qui, fummo spinti brutalmente e caricati su di un vagone bestiame, senza un criterio preciso, bambini, neonati, vecchi e invalidi, gettati su quel carro e chiusi, dall’esterno, ermeticamente con del filo piombato. (..)

Eravamo bestie impaurite e temevamo ogni rumore sospetto. Il primo atto di spersonalizzazione, la prima manifestazione del decadimento della nostra condizione di esseri umani, stava tragicamente iniziando! (…)

Pioveva a dirotto: erano le tre del 6 agosto 1944. Fasci di luce inquadravano un grande spiazzo. Ordini concitati, urlati in tedesco, davano disposizioni, mentre alcuni cani abbaiavano sul piazzale. (…)

Fummo fatti scendere velocemente e a colpi di bastone, spinti e radunati nel piazzale: regnava una gran confusione. (…)

Era una massa silenziosa di anziani e bambini che, di lì a poco, sarebbe diventata cenere per i campi di Auschwitz, concime per un mondo, un’umanità che stava perdendo il suo “io”, il suo Dio.

Quella strada asfaltata -lo sapemmo solo dopo- portava al crematorio numero 2 di Birkenau e “passava per il Camino”. (…)

Quell’odore tremendo, acre, di zolfo che brucia, non mi ha mai abbandonato, io lo sento ancora oggi, riconosco quell’odore di morte: mi ha avvicinato di più alla vita. Quell’odore è il profumo di libertà di chi, a Birkenau, forse non ha avuto Dio, ma lo ha raggiunto presto. (…)

Per la prima volta eravamo di fronte alla bestia di Aushwitz, il Lagerarzt di Birkenau: il famigerato dottor Joseph Mengele. Con lui, il nostro destino si compiva.

Terminata la selezione, divisero uomini e donne e ci fecero entrare in due baracche diverse. Qui avvenne la nostra orrenda metamorfosi. Il nostro processo di spersonalizzazione iniziava da quella baracca. (…)

La tecnica delle punizioni variava a seconda dei casi e dei momenti: si passava dalle bruciature con il ferro rovente, allo strappo delle unghie, ai calci con i pesanti stivali delle SS, alle bastonate inferte con rara crudeltà.

Le capobaracche sembrava provassero un piacere indicibile nell’infliggerci le punizioni.

Fra tutte una delle più frequenti consisteva nel farci inginocchiare, con le mani sollevate verso l’alto, reggendo dei mattoni pesantissimi: in questa posizione dovevamo rimanere ore, fino a quando non perdevamo i sensi, ormai sfinite.

Il trattamento punitivo veniva riservato anche a chi non comprendeva, subito, gli ordini impartiti dai tedeschi. (…)

Una mattina, solo per aver aiutato durante l’appello una compagna che era sul punto di svenire, fui chiamata fuori dal gruppo da un ufficiale che, davanti a tutte, con un ferro rovente, mi bruciò l’interno della coscia destra.

Marchiata come le bestie, da quel momento mi si impediva di nutrire il sentimento della solidarietà verso il mio prossimo: per me, la strada dell’indifferenza, cominciava a prendere la forma di un percorso obbligato. (…)

Verso la metà di settembre, un forte bombardamento, non lontano dal campo, riaccese le nostre speranze.

Anziché farci prendere dalla paura e dalla disperazione, molte di noi rimasero in silenzio nella baracca, ad ascoltare col cuore in gola. Si fece strada, in noi, l’idea che fosse arrivato il momento della liberazione: speravamo che quelle bombe cadessero su Birkenau, non le temevamo, pensavamo fosse arrivata la fine delle nostre miserie, dei nostri tormenti. Ci illudevamo, con quelle bombe, che il mondo si fosse finalmente ricordato di noi, che esistevamo ancora,malgrado tutto. Forse, uomini liberi, là fuori, sapevano che in quella distesa di quarantacinque chilometri quadrati, Dio aveva concesso ancora il dono della vita. Ci rendevamo conto che qualcosa, forse, stava per accadere. Sentivamo a un passo da noi l’odore di libertà, ma poche di noi ci credevano fino in fondo e quando il bombardamento terminò, con esso caddero anche le nostre speranze e le illusioni che avevamo alimentato la nostra fantasia. Le nostre ali, per lunghi attimi, avevano provato a farci “volare” e dimenticare la miseria che ci teneva incatenate a Birkenau senza scampo. (…)

[Il 26 ottobre 1944, a causa delle sconfitte subite dalle armate naziste ad opera delle potenze dell’Alleanza atlantica, Elisa Springer ed altre compagne del lager vennero trasferite nel campo di sterminio di Bergen-Belsen –NdR-].

Bergen-Belsen si trovava nelle vicinanze di un bosco e per raggiungere il campo fummo costretti ad attraversare un piccolo paese. Ho ancora davanti agli occhi le facce indifferenti della gente del posto, che ci vedeva sfilare vestiti con miseri stracci. Ancora oggi mi chiedo se avessero paura di farsi coinvolgere da un gesto di umana pietà perché minacciati, o se fossero, tutti, obbedienti assertori della pura razza ariana.

Dio mi perdoni se non ho mai trovato degna risposta al mio dubbio e continuo a credere nella seconda ipotesi. (…)

Evitare la morte era, dunque, l’unico pensiero, anche perché già da Bergen-Belsen avevamo cominciato a intuire che qualcosa stava cambiando. Nel campo, le voci di una sconfitta imminente del Reich si facevano sempre più insistenti, come sempre più vicini erano i bombardamenti degli Alleati. Ogni notizia ci procurava nuove energie, ogni bomba che cadeva rappresentava una nuova speranza.

 


 

Alcune manifestazioni a cui la Prof.ssa Elisa Springer ha partecipato:

 

http://www.quintiliano.it/NEWS/ElisaSpringer/Immagini.htm

 

http://www.monteiasi.it/TEMPORANEI/ElisaSpringer270402/ManifestazX_25april.htm